smartphone

Il servizio di messaggistica WhatsApp, ad oggi, rappresenta il principale mezzo di comunicazione per oltre un miliardo di persone. Lo scorso anno, in occasione della conferenza F8, Facebook, proprietario di WhatsApp, ha dichiarato che sono oltre 65 miliardi i messaggi scambiati quotidianamente sulla piattaforma mentre sono oltre 2 miliardi i minuti di chiamate realizzate nello stesso arco di tempo. Questo servizio, sempre più rilevante nei rapporti sociali, viene sovente utilizzato come mezzo di comunicazione tra soggetti che vogliono instaurare e coltivare rapporti commerciali. L’importanza assunta dunque da esso, spiega l’interesse della giurisprudenza nel definire quale sia la natura giuridica di tale strumento ed eventualmente la possibilità di utilizzarlo all’interno del processo penale. Ciò porta in molti casi al sequestro degli smartphone nell’ambito di un procedimento penale al fine di estrarre copia dei dati informatici dalla memoria del dispositivo. Ormai da quasi 3 anni, WhatsApp, al fine di rendere accessibili le conversazioni solamente a mittente e destinatari, ha introdotto un sistema di crittografia “end-to-end” che rende particolarmente complicata l’attività di intercettazione di tali conversazioni.

Come recentemente ribadito dalla quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 1822/2018, i dati informatici acquisiti dalla memoria dello smartphone (tra cui in primis proprio le conversazioni tramite WhatsApp) hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 del codice di procedura penale.

 

Modalità di produzione in giudizio: screenshot e trascrizione del testo accompagnata dal supporto materiale

I giudici di Cassazione, con sentenza n. 49016/2017, hanno aperto alla possibilità di acquisire in giudizio la trascrizione della chat WhatsApp a determinate condizioni. Nel caso di specie, il tribunale di merito aveva rigettato la richiesta dell’imputato del reato di stalking di acquisire la trascrizione delle conversazioni intercorse con la parte offesa. Il rigetto era stato motivato sulla base della assenza del supporto materiale dal quale le conversazioni erano tratte. I giudici di legittimità, ribadendo la natura di prova documentale di dette conversazioni (costituendo le stesse una forma di memorizzazione di un fatto storico), hanno sancito  la loro utilizzabilità come subordinata all’acquisizione del supporto contenente la relativa registrazione. Occorre infatti, per i giudici, verificare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto al fine di verificare la paternità delle registrazioni nonché l’attendibilità di quanto documentato. Avvenuto il deposito del supporto informatico, il giudice potrà poi decidere di sottoporlo alla perizia di un tecnico nominato dal giudice al fine di constatare la mancanza di alterazioni nel testo. Ciò comporta però la necessità di privarsi dello smartphone o altro dispositivo per tutta la durata del procedimento, il che in alcuni casi può risultare particolarmente gravoso.

Lo screenshot, per la frequenza con il quale viene effettuato quotidianamente dagli utenti, rappresenta il mezzo più immediato ma anche il meno idoneo per far entrare un messaggio WhatsApp come prova in un processo. Lo screenshot infatti, al pari della trascrizione della conversazione non accompagnata dal dispositivo materiale, rappresenta una riproduzione meccanica che può essere facilmente contestata dalla controparte e dunque difficilmente acquisita dal giudice come prova. Pur rimanendo dunque fermo il principio secondo il quale ogni documento legittimamente acquisito è soggetto alla libera valutazione del giudice, è necessario evidenziare che le due modalità descritte non rappresentano probabilmente le più idonee al fine di acquisire in giudizio la conversazione. A ribadire quanto sopra, il Tribunale di Milano con sentenza del 24/10/2017, ha ritenuto non utilizzabile ai fini probatori le parti di conversazioni WhatsApp che il datore di lavoro avrebbe voluto utilizzare per contestare la richiesta di risarcimento avanzata da una ex lavoratrice in seguito al suo licenziamento. Anche in questo caso, il rigetto da parte del Tribunale si fondava sul mancato apporto del dispositivo contenente le conversazioni.

La disciplina in materia di computer forensics evidenzia l’importanza di vagliare le prove alla luce di standard, procedure e parametri specifici, al fine di evitare un’ingiusta compressione delle garanzie delle parti.

Una diversa modalità di acquisizione: lo strumento della copia forense

Con la legge 48/2008, il legislatore italiano, in attuazione della Convenzione di Budapest del 2001, ha introdotto importanti modifiche al Codice di Procedura Penale. Per quanto attiene alle modalità di acquisizione della prova informatica, relativamente al sequestro dei dati informatici contenuti in un determinato apparecchio, si richiede che l’acquisizione avvenga mediante copia dei dati effettuata su un supporto adeguato. La procedura scelta deve assicurare la conformità dei dati copiati ai dati originali. I dati copiati non devono poter essere modificati e gli originali devono essere protetti con modalità adeguate. Tale copia forense rappresenta l’esatta duplicazione dei dati digitali presenti nel dispositivo. Questo strumento permette dunque di cristallizzare il contenuto informativo dell’apparecchio in modo tale da riprodurlo in giudizio senza alterazione alcuna.

I giudici di legittimità, con sentenza n. 8736/2018, hanno avuto modo di approfondire il tema in oggetto relativamente all’acquisizione operata dalla Polizia Giudiziaria durante la fase delle indagini, mostrando una particolare attenzione ad un tema particolarmente delicato e fino ad oggi caratterizzato da una complessiva mancanza di uniformità a livello giurisprudenziale. Secondo la Corte l’estrazione di dati archiviati in un supporto informatico non costituisce accertamento tecnico irripetibile anche dopo l’entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48. Questa ha introdotto unicamente l’obbligo per la polizia giudiziaria di rispettare determinati protocolli di comportamento e best practices, senza prevedere alcuna sanzione processuale in caso di mancata loro adozione, potendone derivare, invece, eventualmente, effetti sull’attendibilità della prova rappresentata dall’accertamento eseguito.

Dott.  Alvise Nisato

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