Negli ultimi anni sono stati sempre più frequenti casi di lavoratori dipendenti che, molte volte ignari delle conseguenze, hanno pubblicato sui propri social networks (facebook in primis) fotografie o “selfie”, spesso denigratori, scattati sul posto di lavoro, oppure frasi diffamatorie e screditanti nei confronti di datore di lavoro o colleghi.

E’ da tenere a mente che il mondo di Internet non è affatto privo di regole e che i comportamenti posti in essere su di esso si ripercuotono inevitabilmente nella vita reale.

Nel mondo virtuale ci si sente sempre nella necessità di portare a conoscenza degli altri proprie immagini e proprie considerazioni ma ciò può portare a dei riflessi nella vita personale e lavorativa.

I social media, infatti, sono degli ambienti accessibili a una cerchia più o meno ampia di soggetti, dunque, realizzare condotte di questo genere può comportare l’inflizione di sanzioni di vario tipo.

Ad esempio, in sede disciplinare, comportamenti simili hanno comportato in diversi casi, per il dipendente trasgressore, il licenziamento per giusta causa per violazione dell’obbligo di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del c.c.

In questo articolo andremo ad analizzare innanzitutto cosa s’intende per obbligo di fedeltà, per relazionarlo in seguito con il problema dei social networks analizzando altresì un caso pratico per facilitarne la comprensione.

L’obbligo di fedeltà

L’articolo 2105 del codice civile (“Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”) impone esplicitamente al prestatore di lavoro di non realizzare determinate condotte: non trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro, non divulgare notizie sull’organizzazione e sulle modalità di produzione dell’impresa e di non utilizzarle per recare pregiudizio a quest’ultima (comportamento punito anche penalmente dall’art 622 c.p. “1. Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516; 2. La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società; 3. Il delitto è punibile a querela della persona offesa”).

In caso di violazione di queste prescrizioni, secondo quanto affermato dal successivo articolo dello stesso codice (L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione e in conformità delle norme corporative”), è possibile incorrere in sanzioni di carattere disciplinare, ultima tra tutte il licenziamento per giusta causa (perché viene meno il particolare rapporto di fiducia che lega il dipendente al datore di lavoro).

Non solo queste quattro ipotesi possono, tuttavia, portare alla violazione dell’articolo 2105 c.c. in quanto la giurisprudenza prevalente, per fornire una maggiore tutela al datore di lavoro, ne ha esteso il contenuto.

Infatti l’obbligo di fedeltà, secondo la Suprema Corte, deve espandersi fino a ricomprendere i parametri della correttezza e buona fede previsti rispettivamente dagli articoli 1175 e 1375 del codice civile.

I due articoli in questione prescrivono principi di carattere estremamente ampio che possono essere facilmente adattabili al mutare del tempo e, nell’analisi specifica, della tecnologia: nel mondo virtuale si registra una forte propensione all’insulto e questi comportamenti, se rivolti nei confronti del datore o dell’ambiente di lavoro non possono rimanere impuniti.

Il lavoratore dipendente sarà dunque tenuto non solo a rispettare il dettato dell’art 2105 c.c. ma, più in generale, ad astenersi dal porre in essere qualsiasi comportamento lesivo per l’impresa nella quale lavora, anche al di fuori dell’orario lavorativo.

Le sanzioni disciplinari potranno scattare ogniqualvolta venga messo in dubbio il rapporto fiduciario tra datore e dipendente o quando il comportamento di quest’ultimo possa fungere da modello diseducativo o disincentivante per gli altri dipendenti.

Quanto detto va ovviamente contemperato con il diritto di critica (contemplato in generale all’art 21 della Costituzione, e nello specifico dall’art. 1 dello statuto dei lavoratori) che ha il dipendente verso il datore di lavoro: è certamente vero che questo diritto non può essere eliminato, ma è altrettanto vero che devono essere rispettati dei limiti.

E’ la stessa Corte di Cassazione (sent. n. 29008/2008) ad indicare quando il diritto di critica viene oltrepassato costituendo giusta causa di licenziamento: la critica deve essere oggettivamente veritiera, non deve screditare il datore di lavoro e non deve essere idonea a provocare danni economici per quest’ultimo (superati tali limiti l’articolo 2105 può ritenersi violato).

Il caso

Per meglio comprendere la questione può apparire utile analizzare un recente caso in cui si è arrivati ad un licenziamento del lavoratore per violazione dell’obbligo di fedeltà.

Nel caso in questione un dipendente aveva postato sul proprio profilo facebook delle foto, seguite da frasi denigratorie verso l’impresa e il datore di lavoro, che erano state scattate, assieme a due colleghi, sul luogo di lavoro.

Le foto, inoltre, erano state realizzate durante l’orario di lavoro, evidenziando un’interruzione della prestazione lavorativa e, dunque, la violazione dei principi di diligenza, buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto.

A causa dei comportamenti elencati, il dipendente veniva licenziato per giusta causa per violazione dell’obbligo di fedeltà.

Il tribunale di Milano, successivamente, rigettava il ricorso proposto dal dipendente contro il licenziamento  precisando come nonostante le foto non fossero state pubblicate sul sito dell’azienda (e non fosse presente il nome della stessa in esse), le pagine su cui erano pubblicate erano accessibili da soggetti che erano perfettamente in grado di comprendere a chi fossero rivolte le frasi denigratorie e dunque risultavano violati i principi fondamentali di buona fede e correttezza correlati all’articolo 2105 del c.c.

Conclusioni

Il mondo virtuale dei social networks, come si può desumere da questa breve analisi, appare sempre pieno di rischi legali per i soggetti che lo frequentano e bisogna porre particolare attenzione nell’utilizzo di questi strumenti.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, poiché molte violazioni avvengono a causa dell’inconsapevolezza dei dipendenti, sarebbe auspicabile che ogni datore di lavoro fornisse, all’interno dei codici di condotta, delle precise indicazioni sull’utilizzo di internet e dei servizi che questo mondo offre, prescrivendo altresì limiti all’utilizzo dei social durante gli orari di lavoro e indicazioni per l’impiego della strumentazione telematica fornita dall’impresa.

 

Dott. Luigi Dinella

 

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