social network

I social network, ed in particolare Facebook, sicuramente rappresentano un comodo mezzo per restare in contatto con amici o parenti che vivono in altre località del nostro stesso paese oppure in altri Stati o continenti.

Tuttavia, non sempre le amicizie virtuali si riscontrano anche nella realtà: a volte queste rappresentano una semplice forma di distrazione e l’amicizia può trasformarsi più che altro in uno scambio di post e contenuti multimediali privo di qualsiasi elemento sentimentale (molte volte anche tra persone che nella realtà non si sono mai incontrate).

E’ proprio questa concezione dell’amicizia virtuale uno dei motivi che ha spinto il Tar della Sardegna (sent. n. 281/2017) ad affermare che la semplice amicizia su Facebook non può essere considerata indice di “abituale commensalità” tra due soggetti e, dunque, non si può affermare incondizionatamente che, in caso di amicizia virtuale tra un candidato ad un concorso ed un membro della commissione esaminatrice, ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di raccomandazione che falsi l’esito del concorso stesso.

Alla base della decisione del Giudice Amministrativo vi è l’impossibilità di estendere oltre il dettato letterale il contenuto dell’articolo 51 del Codice di Procedura Penale, che disciplina i casi di astensione (obbligatoria o facoltativa) del giudice (e del commissario nel nostro caso) per il divieto di estensione analogica della norma penale.

Per rendere maggiormente comprensibile il caso sottoposto al Tar, esaminerò inizialmente la norma penale appena citata raffrontandola con il divieto di analogia.

 

L’incompatibilità e il divieto di analogia

L’articolo 51 del Codice di Procedura Penale indica vari casi in cui il giudice (o commissario nel nostro caso) ha l’obbligo o l’onere di astenersi dal giudicare un determinato caso e, qualora non si astenga pur in presenza delle circostanze indicate dalla norma, vi sarà la possibilità di ricusarlo.

Nel caso di nostro interesse viene in gioco l’ipotesi prevista dal secondo comma della norma citata, secondo cui il giudice ha l’obbligo di astenersi nel caso in cui sia “commensale abituale” di una delle parti (“Il giudice ha l’obbligo di astenersi se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado [o legato da vincoli di affiliazione], o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori”).

La commensalità, come è intuibile dallo stesso termine, è qualcosa di molto più stretto rispetto ad una pura e semplice conoscenza di un soggetto, perché indica un rapporto di amicizia intimo (tanto che il termine sta a significare “compagno di tavola”) tanto che, secondo la giurisprudenza prevalente, si deve trattare di un rapporto quasi familiare.

Dunque, ai fini della commensalità abituale è necessario che i soggetti abbiano un rapporto molto stretto, quasi di tipo familiare. Un’interpretazione differente della norma, che estendesse il concetto di commensale ad una semplice amicizia virtuale su un social network, sarebbe quindi contrario al divieto di analogia previsto per le norme penali.

Secondo tale divieto (che trova fondamento nell’articolo 25 Cost., nell’articolo 1 c.p. e nell’articolo 14 delle Preleggi), espressione del principio di tassatività (secondo cui non si può essere puniti se non per ipotesi già previste in modo esplicito dalla legge), l’obbligo di astensione si applica solo nel caso in cui ricorra una delle condizioni elencate dalla norma penale, e non in forza di un’interpretazione estensiva effettuata dal giudice che vada a ricomprendere ipotesi non previste dalla norma stessa.

Il divieto di analogia è uno dei principi che, assieme a quelli di legalità dei reati, di riserva di legge, di tassatività e di irretroattività della norma penale, si pone a tutela delle libertà individuali con il fine di far conoscere con certezza quali comportamenti si possano o meno porre in essere.

 

 

Il caso

Svolte le dovute premesse è possibile passare all’analisi del caso portato all’attenzione del Tar di Sardegna.

Uno dei candidati che non aveva superato un concorso, aveva fatto ricorso davanti al Giudice Amministrativo, ritenendo che il concorso fosse stato falsato, in quanto tra un commissario e uno dei candidati esisteva un’amicizia virtuale su Facebook e sullo stesso social erano state condivise delle foto che li ritraevano assieme: da queste indicazioni si sosteneva emergesse una commensalità abituale ai sensi dell’articolo 51 c.p.c..

I giudici, invece, respingevano le richieste ritenendo che questo tipo di amicizia virtuale non potesse in alcun modo provare l’esistenza di una commensalità abituale, poiché il sistema di amicizie del social network in questione consente di entrare in contatto con soggetti che nel mondo reale possono di fatto essere degli sconosciuti.

A detta dei Giudici, inoltre, neppure le fotografie condivise potevano provare la commensalità abituale, in quanto ciò non è espressamente previsto dall’art 51 c.p.c. e la norma non può essere interpretata né in modo estensivo, né analogico: è necessario quantomeno provare che si tratti di “una cerchia di persone che hanno una certa affectio familiaritatis, ossia che vivono in famigliarità e hanno interessi comuni”.

Il ricorrente, invece, non aveva in alcun modo provato la frequenza dei contatti e dei rapporti che avrebbe minato l’imparzialità del commissario ed il ricorso veniva respinto.

 

Conclusioni

Seppure la sentenza possa in un certo modo apparire non condivisibile, da questa (e da altre pronunce simili) si evince che la commensalità abituale bisogna che sia realmente dimostrata e non se ne può presumere l’esistenza da una semplice amicizia virtuale su un social network.

Nulla, tuttavia, esclude che un tale tipo di comportamento possa, affiancato a concrete prove di una stretta amicizia tra due soggetti, essere utile a rafforzare le convinzioni del giudice e portare ad un accoglimento del ricorso.

 

Dott. Luigi Dinella

 

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