Può la vittima di atti persecutori pubblicare il numero di telefono del molestatore senza commettere a sua volta un illecito?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39682 del 2018, ha cercato di fare chiarezza sul punto.

I fatti oggetto della sentenza

Con sentenza depositata il 20 settembre 2017, la Corte d’Appello di Catanzaro confermava la decisione del giudice di prime cure che aveva configurato in capo all’imputato la sussistenza del reato di cui all’art. 167 del d.lgs. 196/2003 (benché nella sua formulazione previgente rispetto alle modifiche da ultimo apportate dal d.lgs. 101/2018) per aver diffuso, all’interno di una chat, il numero di telefono di un soggetto da cui aveva ricevuto una serie di molestie a sfondo sessuale, perpetrate attraverso chiamate ed sms.

L’imputato ricorreva pertanto in Cassazione, deducendo la violazione di legge da parte della sentenza di secondo grado per non aver assunto ad elemento di prova i relativi tabulati telefonici dalla compagnia di riferimento, decisivi ai fini della risoluzione della controversia, e per non aver ritenuto scriminata la condotta di pubblicazione stante la presenza di uno stato d’ira provocato dal fatto ingiusto della persona offesa.

Secondo il ricorrente infatti, la condotta di diffusione del numero telefonico doveva necessariamente considerarsi una reazione rispetto alle “reiterate molestie telefoniche, anche a sfondo sessuale, subite dal ricorrente ad opera della controparte”.

Inoltre, il diniego opposto dalla compagnia telefonica all’acquisizione dei tabulati nei primi due gradi di giudizio (giacché l’utenza in questione non fosse intestata al ricorrente, ma ad un altro soggetto) rappresentava una grave lesione del diritto di difesa del ricorrente, poiché, così facendo, quest’ultimo non fosse stato messo in condizione di dimostrare che siffatte molestie lo avessero spinto a procedere con la pubblicazione del numero di telefono.

Tuttavia, con la sentenza in oggetto, la Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso dell’imputato.

Le motivazioni della Cassazione a sostegno del rigetto del ricorso

In via preliminare, i Supremi Giudici rilevano la valenza confessoria dell’ammissione operata dal ricorrente circa la propria condotta di pubblicazione, onde ritenere tale circostanza idonea a fondare il giudizio di colpevolezza in merito al reato di illecito trattamento dei dati personali previsto dall’allora vigente articolo 167 del d.lgs. n. 196/2003.

Quest’ultimo (sia nella sua formulazione originaria che a seguito della modifica operata dal d.lgs. 101/2018) tutela infatti il bene giuridico della riservatezza dei dati personali dell’interessato da condotte dolose -il cui elemento soggettivo è stato ricondotto al “dolo specifico” – sui dati personali dell’interessato al fine di trarre per sé o altri un indebito profitto o arrecare un danno.

Chiarito questo, la Cassazione si concentra sulla natura della scriminante in questione invocata dalla parte ricorrente, giacché questa si fondasse sulla sussistenza di reiterate condotte di molestia a sfondo sessuale perpetrate mediante l’uso del telefono.

Nel suo ricorso, l’imputato sosteneva la violazione di legge della sentenza di secondo grado nella parte in cui non aveva ritenuto la condotta di pubblicazione quale conseguenza dell’altrui provocazione e tale da aver mosso l’imputato ad agire “in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui“; pertanto, questa avrebbe dovuto ritenersi scriminata per la sussistenza di una causa di giustificazione.

Tuttavia, come correttamente statuito dalla Cassazione, all’articolo 62, comma 1, n. 2 c.p. deve riconoscersi la natura di circostanza attenuante in presenza di due presupposti, ovvero il cosiddetto “stato d’ira”, idoneo a determinare nel soggetto un impulso irrefrenabile alla commissione del delitto e “il fatto ingiusto altrui” ovvero la provocazione messa in atto dal soggetto offeso.

Tuttavia, la Cassazione, aderendo a quel filone giurisprudenziale che colloca l’articolo 599 c.p. tra le cosiddette “scriminanti” (ovvero tra le cause di giustificazione che elidono il carattere di antigiuridicità della condotta), precisa che la relativa operatività può essere riconosciuta esclusivamente con riguardo ai delitti contro l’onore, quale bene giuridico protetto ad esempio nel reato di diffamazione ex art. 595 c.p.

Nella fattispecie prevista dall’art. 167 del Codice della Privacy, come già si è avuto modo di chiarire, il bene protetto dalla norma incriminatrice non è quello dell’onore, bensì quello della riservatezza; di conseguenza, non può essere riconosciuta efficacia scriminate alla condotta del soggetto che, sebbene determinato da una condotta provocatrice della persona offesa (le molestie telefoniche), reagisca commettendo a sua volta un illecito, rendendo cioè pubblico il numero telefonico del molestatore.

È opportuno infatti ricordare che, l’orientamento giurisprudenziale consolidato, riconosca al numero telefonico la natura di dato personale (su tutte si veda in proposito la sentenza della Cassazione n. 21839 del 2011).

Com’è noto, il GDPR distingue chiaramente i dati personali “comuni” dai cosiddetti “dati sensibili”: se nella prima categoria a norma dell’art. 4 del Regolamento si indica “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile” (ovvero anche in via indiretta) i dati “sensibili” sono quelli idonei a rivelare “l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale di una persona”.

È quindi evidente che, per espressa previsione legislativa, il numero di telefono o di cellulare non possa essere elevato a dato sensibile, rientrando piuttosto nella categoria di dato personale comune, secondo la distinzione così operata dal GDPR.

Ciò tuttavia non vuol dire che anche i dati personali non siano soggetti ai limiti relativi alla divulgazione, ancorché se ciò avvenga senza il consenso dell’interessato: l’articolo 167, in base alle modifiche operate dal d.lgs. 101/2018 (norma che ha recepito il Regolamento Europeo ed ha apportato le necessarie modifiche al previgente Codice della Privacy), nella sua attuale formulazione prevede la commissione di un illecito penale in caso di divulgazione non autorizzata di dati personali.

Come confermato dallo stesso Garante per la protezione dei dati personali infatti, “Con l’evoluzione delle nuove tecnologie, altri dati personali hanno assunto un ruolo significativo, come quelli relativi alle comunicazioni elettroniche (via Internet o telefono) e quelli che consentono la geo localizzazione, fornendo informazioni sui luoghi frequentati e sugli spostamenti.

dott. Ercole Dalmanzio

 

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