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La scorsa settimana ci siamo occupati della responsabilità civile dell’Internet Service Provider, evidenziando in particolare le incertezze e i limiti normativi presenti nel rapporto provider/utente. Tuttavia abbiamo dovuto riscontrare come siano presenti alcune lacune a livello normativo che di fatto non prevedono alcun obbligo generale di controllo a carico del Provider.

In attesa quindi di un intervento organico del legislatore, il ruolo preponderante in tale materia risulta delegato ai giudici comunitari e nazionali, allo scopo di  fornire riferimenti maggiormente affidabili nel panorama della responsabilità degli ISP e degli altri fornitori di servizi on line.

Infatti, quanto detto per l’Internet Service Provider, come vedremo, in taluni casi risulta applicabile anche nei confronti di altre tipologie di fornitori di servizi on line.

In Europa..

Il caso C-236/08 ha visto comparire Google, il più noto e utilizzato motore di ricerca (e non solo) della realtà digitale contemporanea innanzi alla Corte di Giustizia. La procedura qui in esame aveva come oggetto l’affidabilità e la correttezza del funzionamento di uno dei tanti servizi offerti da Google:  AdWords, ovvero lo strumento che, in estrema sintesi, consente di adeguare i messaggi pubblicitari alle ricerche svolte dall’utente on line.

In fatto accadeva che prestigiose aziende del settore moda contestavano a Google la circostanza che tra i risultati di ricerche svolte adoperando come parole chiave i loro marchi, comparissero siti di e-commerce di beni contraffatti. Ciò avveniva in conseguenza del fatto che soggetti terzi si servivano abusivamente di tali marchi allo scopo di trarne un profitto.

Dopo una condanna in primo e secondo grado inflitta alla società di Mountain View, la Corte di ultimo grado francese rinviava il caso alla Corte di Giustizia. In tale contesto, la Cour de Cassation sottopose alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

1)      Se gli artt. 5, n. 1, lett. a) e b) della [direttiva 89/104], e 9, n. 1, lett. a) e b), del [regolamento n. 40/94], debbano essere interpretati nel senso che il prestatore del servizio di posizionamento a pagamento che mette a disposizione degli inserzionisti parole chiave che riproducono o imitano marchi registrati, e organizza, in forza del contratto di posizionamento, la creazione e la visualizzazione privilegiata, partendo da tali parole chiave, di link pubblicitari verso siti sui quali sono offerti prodotti contraffatti faccia un uso di tali marchi che il [loro] titolare ha il diritto di vietare.

2)      Se, nel caso in cui i marchi siano marchi notori, il titolare possa opporsi ad un tale uso, in forza dell’art. 5, n. 2, della direttiva [89/104], e dell’art. 9, n. 1, lett. c), del regolamento [n. 40/94].

3)      Nel caso in cui un tale uso non costituisca un uso che può essere vietato dal titolare del marchio in applicazione della direttiva [89/104] e del regolamento [n. 40/94], se il prestatore del servizio di posizionamento a pagamento possa essere considerato fornitore di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione delle informazioni fornite da un destinatario del servizio, ai sensi dell’art. 14 della [direttiva 2000/31], di guisa che non è possibile ravvisare una sua responsabilità prima che egli sia stato informato dal titolare del marchio dell’uso illecito del segno da parte dell’inserzionista”.

Il Giudice europeo coglieva dunque l’occasione per fornire ai giudici nazionali le indicazioni sulle condotte rilevanti ai fini della responsabilità dei Provider, tenendo come punto di riferimento le attività in concreto svolte nel corso della fornitura del servizio e successivamente alla conoscenza del fatto illecito.

La Corte, in quell’occasione, non rilevava profili di responsabilità imputabili a Google giudicando che lo stesso svolgesse una funzione “meramente tecnica, automatica e passiva” che escludeva la possibilità di conoscere e controllare i dati oggetto di trasmissione.

Sul punto il testo della sentenza è molto chiaro:

“[…] per quanto attiene al servizio di posizionamento di cui trattasi nelle cause principali, dal fascicolo e dalla descrizione di cui ai punti 23 e seguenti della presente sentenza si evince che la Google, tramite software da essa sviluppati, effettua un trattamento dei dati inseriti dagli inserzionisti ottenendo la visualizzazione di annunci a condizioni stabilite dalla stessa Google. Quest’ultima stabilisce quindi l’ordine di visualizzazione in funzione, in particolare, del pagamento degli inserzionisti”.

Occorre osservare che la semplice circostanza che il servizio di posizionamento sia a pagamento, che la Google stabilisca le modalità di pagamento, o ancora che essa dia informazioni di ordine generale ai suoi clienti, non può avere come effetto di privare la Google delle deroghe in materia di responsabilità previste dalla direttiva 2000/31.

Del pari, il fatto che la parola chiave selezionata e il termine di ricerca inserito da un utente di Internet coincidano non è di per sé sufficiente a ritenere che la Google conosca o controlli i dati inseriti dagli inserzionisti nel suo sistema e memorizzati sul suo server”.

Nondimeno, molto interessanti risultano essere le conclusioni evidenziate dall’ Avvocato Generale Maduro, il quale esprime così il suo parere:

“la visualizzazione da parte della Google di annunci discende dal suo rapporto con gli inserzionisti. Di conseguenza l’AdWords non è più un veicolo neutro di informazioni: la Google ha un interesse diretto a che gli utenti di Internet selezionino i collegamenti degli annunci pubblicitari (a differenza di quanto accade per i risultati naturali presentati dal motore di ricerca)”. 

La statuizione della Corte di Giustizia non è stata accolta con unanime approvazione tanto è vero che in un’altra occasione, sempre un tribunale francese, evidenziava che Google, nel veicolare i messaggi pubblicitari, poteva individuarne preventivamente il contenuto, determinarne il posizionato oltre che interrompere in qualunque momento la pubblicazione dello stesso.

Di conseguenza per il Giudice francese il ruolo del famoso motore di ricerca poteva essere considerato tutt’altro che “passivo” e per l’effetto condannava la società americana al pagamento di un risarcimento.

..E in Italia

In ambito nazionale ha prodotto un certo clamore il contenzioso  che ha visto contrapporsi nelle aule dei tribunali Youtube e Mediaset con riguardo alla pubblicazione non autorizzata di numerosi video e immagini e la mancata rimozione degli stessi a seguito delle segnalazioni svolte.

Al momento della decisione i Giudici illustravano, seguendo il seminato della Corte di Giustizia, anzitutto la necessità di effettuare una valutazione caso per caso incentrata sulla concreta e fattuale individuazione dell’attività e dei servizi svolti dal  Provider nella direzione e organizzazione della piattaforma digitale.

Il Giudice individuava in capo all’ISP un preciso dovere di rimozione dei contenuti illeciti soprattutto in conseguenza delle segnalazioni ricevute da parte del titolare del diritto e pertanto condannava YouTube a risarcire la parte attrice.

Interessante l’argomento cui ha fatto ricorso il tribunale romano adito:

L’evoluzione tecnica in materia di servizi Internet  ha determinato […] il superamento della figura dell’ISP, quale mero fornitore del supporto tecnico-informatico […] per condurre ad una figura di “prestatore di servizi non completamente passiva e neutra rispetto alla gestione dei contenuti immessi dagli utenti (hosting attivo)”.

Caso analogo ha interessato un’altra celebre piattaforma virtuale, ovvero Tripadvisor. Un affermato ristoratore veneto si riteneva diffamato da una serie di recensioni artefatte e non veritiere. Anche in questo caso il Giudice non ha attribuito a Tripadvisor un mero ruolo passivo di aggregazione di dati, ritenendo invece, come si evince dal sito, che lo stesso “dispone di risorse tecnologiche apposite e di un team che controlla le recensioni per verificare che siano ad esempio: a) adatte a tutti, b) associate alla struttura corretta, c) conformi a tutti i regolamenti”.

Questa attività critica in relazione ai contenuti pubblicati, a parere del Giudice, esclude che a Tripadvisor possa applicarsi la disciplina prevista dalla Direttiva sul commercio elettronico descritta nel precedente articolo, dal momento che la stessa ha ad oggetto le sole condotte neutrali e passive dei Providers.

Conclusioni

Le decisioni trattate in questo articolo affrontano il tema del controllo/verifica svolto prima dell’inserimento dei contenuti, degli obblighi successivi alle segnalazioni degli utenti, delle conseguenze in caso di inerzia del Provider e così via.

Nelle decisioni dei giudici si percepisce il tentativo di colmare alcune delle lacune e ambiguità della disciplina vigente al fine di assicurare una più efficace tutela ai soggetti coinvolti.

Se da un lato però, tanto in Italia quanto in Europa, emerge chiaramente l’obbligo degli ISP di intervenire a seguito di una segnalazione, dall’altro lato si deve rilevare la maggiore confusione relativa agli obblighi di sorveglianza degli ISP. Gli esiti di alcuni procedimenti giudiziali nostrani, in controtendenza rispetto alle indicazioni della Corte di Giustizia, mostrano il tentativo di porre l’accento sul ruolo sempre più attivo del Provider al precipuo scopo di tutelare le vittime degli illeciti. La tutela riconosciuta nelle aule giudiziarie pare smentire Trasimaco (filosofo greco vissuto alla fine del V a.C.) secondo il quale “il giusto altro non è che l’utile del più forte”.

La faccenda risulta ancora più delicata nel contesto penale, come sostiene il Tribunale di Milano già dal 2010 :

“È ovvio che l’hoster attivo o il content provider che dir si voglia avrà certamente un livello di obblighi più elevato di quello di un semplice host provider o service provider o access provider: lo rende inevitabile il suo divenire dominus dei dati che, per il solo fatto di essere organizzati e quindi selezionati e quindi appresi non sono più il flusso indistinti che non si conosce e che non si ha l’obbligo di conoscere […] ma tale fatto non crea una specie di effetto catena che fa dell’hoster attivo automaticamente il corresponsabile di tutti i reati che gli uploaders hanno commesso comunicando e caricando dati sensibili […] la distinzione tra content provider e service provider è sicuramente significativa, ma, allo stato ed in carenza di una normativa specifica in materia, non può costituire l’unico parametro di riferimento ai fini della costruzione di una responsabilità penale degli internet providers”.

Le più recenti sentenze della Corte di Giustizia tra l’altro risultano molto altalenanti sulla questione.

Infatti si  passa da pronunce nel segno di una limitata responsabilità dei provider, ritenuta “incompatibile” con il diritto dell’Unione Europea, attraverso la previsione di una ingiunzione da parte di un giudice nazionale che vada ad imporre ad un fornitore di accesso ad Internet la predisposizione di un sistema di filtraggio per prevenire i download di file in violazione di diritti d’autore dei rispettivi titolari, (sentenza SABAM vs. Scarlet) a decisioni totalmente differenti, nelle quali si sanciscono obblighi di collaborazione per individuare gli utenti che compiono atti di contraffazione (sentenza Bonnier Audio e a. vs. Perfect Communication Sweden AB).

Dott. Andrea Spataro  

 

 

 

 

 

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