Il dipendente non può essere spiato nemmeno se dall’attività di controllo risulti che è venuto meno ai suoi doveri nei confronti dell’azienda, quando l’installazione dell’impianto di controllo a distanza non è stato concordato con le rappresentanze sindacali aziendali.

(Cassazione civile Sez. lavoro, 17/07/2007, n. 15892).

Testo integrale della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SENESE Salvatore – Presidente
Dott. MAIORANO Francesco Antonio – Consigliere
Dott. CELENTANO Attilio – Consigliere
Dott. MONACI Stefano – Consigliere
Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in …, presso lo studio dell’avvocato …, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato …, giusta delega in atti;

– ricorrente –

 

contro

X, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in …, presso lo studio dell’avvocato …, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 275/05 della Corte d’Appello di MILANO,depositata il 26/04/05 – R.G.N. 328/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/07 dal Consigliere Dott. Paolo STILE;
udito l’Avvocato …;
udito l’Avvocato …;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. …, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 17/3/05 X. conveniva dinanzi alla Corte d’appello di Milano, P.S. chiedendo la parziale riforma della sent. n. 108/04 del Tribunale della stessa città nel capo in cui aveva ritenuto illegittimo il licenziamento in tronco adottato il 3 luglio 2002.

Il Tribunale, infatti, aveva ritenuto violato la L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2, non avendo la società trovato l’accordo con le r.s.a. circa l’adozione di apparecchiature che consentivano la possibilità di controllo a distanza dell’attività lavorativa.

L’appellante lamentava che il Giudice, in contrasto con quantodisposto dall’art. 112 c.p.c., avesse ritenuto decisivo, per affermare la illegittimità del licenziamento, un motivo neppure specificato in ricorso, nè indicato come vizio del licenziamento nelle conclusioni; avesse ritenuto applicabile l’art. 4, nonostante si trattasse di controlli diretti a reprimere comportamenti scorretti del lavoratore, estranei all’attività lavorativa e tenuti fuori dell’ambiente di lavoro; non avesse considerato che l’apparecchiatura era finalizzata a garantire la sicurezza dei garage dove erano parcheggiate le vetture dei lavoratori, i quali consapevolmente inserivano il badge, essendo la sbarra aperta solo all’orario di entrata ed uscita.

Rilevava che il prodotto accordo del 5-6/8/99 era stato concordato, non in applicazione dell’art. 4 Stat. Lav., ma per regolare l’orario di lavoro e altre materie. Sosteneva che il comportamento del lavoratore, malizioso e ripetutamente inadempiente, era comunqueidoneo a ingenerare sfiducia, considerando che le sue mansioni non richiedevano un’assidua presenza in ufficio; che andava considerata sia la specifica recidiva nel comportamento sia gli addebiti precedenti di due anni l’ultimo, che non potevano essere considerati ai fini della recidiva; che il fatto poteva essere valutato come giustificato motivo soggettivo.

Si costituiva P., resistendo all’appello con articolate argomentazioni. Ribadiva, con appello incidentale condizionato, che la società aveva contestato due volte la stessa mancanza concernente l’anomalia della prestazione, con lettera 27/5/02 per il periodo 6/5 24/5, cui era seguita la sospensione di otto giorni e con lettera 6/6/02, sette giorni prima dell’irrogazione della sospensione, per il periodo 10/5-31/5, cui era seguito il licenziamento.

Con sentenza del 17 marzo-26 aprile 2005 la Corte di Milano accoglieva il gravame, rigettando tutte le domande avanzate dal P. nell’atto introduttivo. Riteneva la Corte che le due contestazioni erano diverse e che i fatti contestati (il lavoratore usciva ed entrava … per propri affari privati) erano risultati provati, dissentendo dal primo Giudice circa la liceità dell’acquisizione dei dati.

Secondo la Corte, infatti, in forza dell’art. 4, comma 2 (“che qui interessa”) il controllo vietato sarebbe solo quello “continuo del comportamento del lavoratore o comunque attuabile in qualsiasi momento a discrezione della direzione aziendale”. I controlli con il badge anche da un altro varco non invaderebbe la riservatezza non lasciando – si afferma – “alcuna possibilità di rilevare spostamenti all’interno dell’azienda”. E per le medesime ragioni non si riteneva sussistere neppure la violazione della privacy. E ciò, in particolare, perchè il P. neppure poteva essere considerato in “attività quando eludendo i controlli varcava altri accessi edentrava nel garage o ne usciva con la sua auto privata”. Considerati legittimi i controlli, la Corte riteneva che l’accertato comportamento del lavoratore, svoltosi in maniera sistematica, fosse di gravità tale da spezzare il vincolo fiduciario determinando la legittimità del recesso.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre P.S. con tre motivi.

Resiste X con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il P., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4 nonchè motivazione omessa e contraddittoria su punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), sostiene che la sentenza impugnata sarebbe pervenuta ad una conclusione errata basata su di una interpretazione altrettanto errata della richiamata L. n. 300, art. 4, comma 2, trascurando di considerare che per il legislatore è sufficiente la mera ipotetica possibilità che dall’impianto “derivi” un controllo “a distanza” per far scattare il divieto (parziale esuperabile) di installazione. E sarebbe contraddittoria laddove non tiene conto della sostanza dei fatti pacifici, omettendo al contempo di affrontare il problema del controllo non “diretto ed esclusivo” ma “possibile e derivato”…, rispetto ad entrambi i casi essendovi pericolo di invasione delle sfera privata del lavoratore inconsapevole.

Il motivo è fondato nei termini che seguono.

Come è noto, la L. n. 300 del 1970, art. 4, la cui violazione è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 38, stessa legge, fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e dellariservatezza del lavoratore.

Detto art. 4, infatti, sancisce, al suo comma 1, il divieto di utilizzazione di mezzi di controllo a distanza, tra i quali, in primo luogo, gli impianti audiovisivi, sul presupposto – espressamente precisato nella “Relazione ministeriale” – che la vigilanza sul lavoro, ancorchè necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione “umana”, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro.

Lo stesso articolo, tuttavia, al secondo comma, prevede che esigenze organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro possano richiedere l’eventuale installazione di impianti ed apparecchiature di controllo, dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. In tal caso è prevista unagaranzia procedurale a vari livelli, essendo la installazione condizionata all’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, ovvero, in difetto, all’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

In tal modo il legislatore ha inteso contemperare l’esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore di lavoro, o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi.

Nel caso di specie come emerge dalle pronunce di merito e dalle stesse difese delle parti – la società, al fine di agevolare i propri dipendenti muniti di autovettura, aveva predisposto per essi un locale garage ove posteggiarla durante l’orario lavorativo, inserendo, tuttavia, un congegno di sicurezza volto a consentirel’ingresso a tale garage solo mediante un meccanismo elettronico attivato da un tesserino – badge – personale assegnato a ciascun dipendente, lo stesso che attivava gli ingressi agli uffici.

Oltre a consentire l’elevazione della sbarra di ingresso al (e uscita dal) garage, il meccanismo rilevava, dal badge, e registrava l’identità di chi passava nonchè l’orario del passaggio. Il che permetteva, mediante l’incrocio di tali dati con quelli rilevati elettronicamente all’ingresso degli uffici, di controllare il rispetto o non degli orari di entrata e uscita e presenza sul luogo di lavoro da parte dei dipendenti.

Un’apparecchiatura di controllo, dunque, predisposta per il vantaggio dei dipendenti, ma utilizzabile anche in funzione di controllo dell’osservanza da parte di questi dei loro doveri di diligenza nel rispetto dell’orario di lavoro e della stessa correttezza della esecuzione della prestazione lavorativa. Tale apparecchiatura – adifferenza di quella analoga installata agli ingressi dell’ufficio – non era stata concordata con le rappresentanze sindacali, nè era stata autorizzata dall’Ispettore del laoro.

Secondo la Corte territoriale la società, nel caso concreto, non avrebbe agito in violazione del menzionato art. 4, comma 2, poichè “la rilevazione dei medesimi dati da altro varco non è in sè modalità occulta e insidiosa di controllo, nè invade la dignità e la riservatezza del lavoratore nello svolgimento dell’attività; non riguarda, inoltre, aspetti della prestazione diversi da quelli per i quali già avveniva il controllo con il medesimo badge (nominativo, orario di entrata e uscita al varco)”.

Osserva il Collegio che tale assunto – fondamentalmente volto ad escludere dall’ambito del divieto del controllo a distanza dell’attività lavorativa posto dall’art. 4 citato i meccanismi dirilevazione dei dati di entrata ed uscita dall’azienda – non appare condivisibile.

Ed invero, posto – come sembra indubitabile, in mancanza di indicazioni di segno contrario – che il riferimento all’attività lavorativa, oggetto della fattispecie astratta, non riguarda solo le modalità del suo svolgimento, ma anche il quantum della prestazione, il controllo sull’orario di lavoro, risolvendosi in un accertamento circa quantità di lavoro svolto, si inquadra, per ciò stesso, in una tipologia di accertamento pienamente rientrante nella fattispecie prevista dal richiamato art. 4, comma 2.

Nè l’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.

Tale esigenza, che, con tutta evidenza, ha indirizzato il Giudice a qua a decidere nel senso censurato. con il conforto, peraltro,anchedi pronunce di questa Corte (in particolare, Cass. 3 aprile 2002 n. 4746), non consentono di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei cd. controlli difensivi ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino, come nel caso, l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro.

Consegue a tale rilievo la necessità, ex art. 4, comma 2, dello Stat. lav., che l’istallazione della contestata apparecchiatura sia oggetto di accordo con le r.s.a. o consentita dall’intervento dell’ufficio pubblico, affinchè i dipendenti ne possano avere pienaconoscenza e possano eventualmente essere stabilite in maniera trasparente misure di tutela della loro dignità e riservatezza.

Nel caso di specie, costituisce circostanza divenuta pacifica, in seguito alla espletata istruttoria in sede di merito, che nessun accordo, neppure tacito, è al riguardo intervenuto tra la direzione aziendale e le r.s.a. e non è stato in alcun modo interessato l’ufficio pubblico in sede di istallazione e funzionamento delle apparecchiature in questione, che consentono, per i rilievi appena esposti, “la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.

Per tale ragione il controllo operato nei confronti del ricorrente, mediante l’incrocio dei dati, legittimamente acquisiti in quanto comunque concordati, rilevati agli ingressi dell’ufficio con quelli registrati alla sbarra di passaggio del garage aziendale, è stato effettuato illegittimamente e quindi i risultati di tale controllosull’attività del P. non possono essere posti a fondamento dell’intimato licenziamento.

L’esaminato motivo va, quindi, accolto, con assorbimento degli ulteriori due, prospettati dal ricorrente.

L’impugnata sentenza, va, per l’effetto, cassata, e sussistendo i presupposti per la decisione nel merito, ex art. 384 c.p.c., il licenziamento in oggetto, conformemente alla decisione di primo grado, va annullato, con le conseguenze stabilite all’art. 18, S.L., come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1. Pertanto, la società resistente va condannata a reintegrare il ricorrente nel suo posto di lavoro ed a risarcirgli il danno, versandogli una indennità corrispondente alla retribuzione globale di fatto di Euro 1.545,90per quattordici mensilità dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, con detrazione di quanto eventualmente corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre rivalutazione e interessi.

L’accertata condotta, tutt’altro che commendevole, del P. induce a compensare tra le parti le spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, conferma la sentenza di primo grado.
Compensa le spese dell’intero processo.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2007.

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