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La diffusione delle informazione tramite il web sta acquisendo un peso sempre maggiore all’interno della nostra società: dunque, appare certamente necessario stabilire dei limiti per quest’attività.

Il diritto all’informazione, com’è noto, va sempre a scontrarsi con il diritto all’onore di coloro che possono essere potenzialmente lesi dalle notizie che circolano nel mondo internet, dove è alto il rischio di incappare in contenuti diffamatori.

Tra le notizie che circolano su web e social, infatti, manca in molti casi un controllo preventivo da parte di un professionista che ne valuti la veridicità e la certezza: proprio per questo motivo è stato necessario individuare dei limiti che potessero contemperare al meglio i due suddetti interessi,  entrambi oggetto di tutela costituzionale.

Come per la diffamazione a mezzo stampa, anche per quella effettuata tramite internet vale la scriminante del diritto di cronaca (per cui, quando vengono rispettati determinati requisiti, un contenuto diffamatorio non è punibile se è espressione del diritto di cronaca). Tuttavia, la Corte di Cassazione ha indicato dei precisi limiti che devono essere rispettati affinché questa causa di non punibilità possa attivarsi.

In questo articolo andrò ad analizzare, innanzitutto, come il diritto di cronaca porti ad escludere la possibilità di diffamazione (art. 595 c.p.) tramite web per poi analizzare il particolare caso sottoposto all’attenzione del tribunale di Paola, che ha preso una decisione, a prima vista, peculiare.

Il diritto di cronaca sul web

Come per la diffamazione a mezzo stampa, vale, per quella tramite internet la scriminante del diritto di cronaca (garantito dall’art. 21 della Costituzione): la tutela della libertà manifestazione del pensiero giustifica il contenuto diffamatorio di un articolo, purché vengano rispettati determinati requisiti (bisogna comunque contemperarlo con il diritto all’onore, anch’esso costituzionalmente garantito).

Il diritto di cronaca, che la dottrina riconosce sia a professionisti giornalisti che non, consiste nella possibilità di portare a conoscenza dei terzi fatti di interesse pubblico.

La Corte di Cassazione (sent. 6092/2012) ha indicato gli elementi di cui uno scritto necessita per essere considerato espressione del diritto di cronaca e, quindi, affinché possa non essere punibile come diffamatorio.

Come primo requisito, la Suprema Corte richiede la veridicità dei fatti: ogni avvenimento che viene portato a conoscenza di altri, se lesivo dell’altrui reputazione, dev’essere vero. Ciò presuppone anche un’attenta ed oculata ricerca e verifica da parte dell’autore dello scritto: nel primo caso parleremo di verità oggettiva, nel secondo verità putativa, intesa come errata percezione dei fatti a seguito di un comportamento non punibile di chi scrive, vista l’attenta attività di ricerca.

Il secondo requisito richiesto è la continenza, intesa come esposizione dei fatti che limitata a quanto è strettamente necessario per la sua rappresentazione. Questo non significa, tuttavia, che sia precluso l’utilizzo di termini offensivi, ma che l’utilizzo di tale linguaggio debba essere estremamente necessario (senza che si arrivi ad una lesione immotivata e gratuita della reputazione altrui): in altre parole, l’esposizione dev’essere proporzionata alla gravità dei fatti narrati.

E’ necessario, infine, che l’argomento trattato sia di spiccato interesse per l’opinione pubblica (pertinenza).

E’ da specificare, però, che il fatto narrato non deve necessariamente interessare l’intera collettività, ma è sufficiente che si tratti di un argomento che susciti l’interesse esclusivo di determinate categorie sociali.

Solo quando l’articolo presenta tutti i requisiti appena analizzati si può parlare di piena espressione del diritto di cronaca e, quindi, di non punibilità di un’eventuale contenuto diffamatorio.

Il caso

Passando all’analisi del caso giunto davanti al tribunale di Paola, possiamo vedere come questo, pur discostandosi apparentemente dalle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione, in realtà resti ben ancorato ad esse.

Nel caso in questione, il Tribunale ha ritenuto diffamatorio il contenuto di un articolo pubblicato su un giornale on line, perché, nonostante il corpo centrale dell’articolo corrispondesse al vero, lo stesso riportava un’imprecisione che, per quanto, a prima vista, potesse sembrare irrilevante, risultava, invece, molto importante e di forte stampo denigratorio.

L’articolo, infatti, aveva ad oggetto lo svolgimento di una perquisizione presso una banca da parte della Direzione Distrettuale Antimafia: pur essendoci stata effettivamente tale attività d’indagine, l’autorità che l’aveva eseguita era differente da quanto riportato (la perquisizione, infatti, era stata eseguita dalla Guardia di Finanza).

I giudici hanno rilevato come, seppure in apparenza tale errore potesse sembrare di lieve entità e, dunque, il testo corrispondesse quasi completamente a verità, tale svista (tra l’altro contenuta nel titolo dell’articolo) avrebbe potuto ingenerare nel lettore il convincimento dell’esistenza di legami tra la banca ed organizzazioni di stampo mafioso e, quindi, avere una forte connotazione offensiva.

Nel motivare la decisione, il Tribunale ha richiamato altresì una pronuncia della Corte di Cassazione (sent. 6410/2010), in cui si sottolineava che le inesattezze marginali, che confermano comunque la veridicità dei fatti, non potrebbero avere capacità offensiva, rilevando, dunque, che nel caso concreto tale massima non avrebbe potuto trovare applicazione.

Per porre fine alla violazione riscontrata, il Tribunale di Paola ha, quindi, ordinato l’inserimento, nella pagina internet in cui era stato pubblicato l’articolo, di un link, nel quale venga richiamato il provvedimento del Tribunale sopra analizzato.

Dott. Luigi Dinella

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