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E’ un dibattito che resta sempre molto acceso, e di particolare attualità, quello concernente l’utilizzo della mail aziendale da parte di un lavoratore.

In ogni situazione posta all’attenzione dei giudici si tenta di stabilire quale interesse debba prevalere: da un lato, bisogna tutelare la segretezza nella corrispondenza del prestatore di lavoro (tutelata costituzionalmente), dall’altro, invece, non si può trascurare l’interesse del datore di lavoro (o dell’azienda in generale) ad un corretto e congruo utilizzo di un servizio messo a disposizione per finalità lavorative e non personali.

Questa problematica è stata risolta dalla giurisprudenza prevalente con una soluzione che favorisce maggiormente il datore di lavoro: si ritiene infatti che, nonostante al prestatore venga comunicata una password per accedere alla propria mail aziendale, l’account resti comunque di proprietà dell’azienda fornitrice del servizio. Dunque, la chiave comunicata non ha la finalità di tutelare la riservatezza del lavoratore, bensì quella di evitare che soggetti terzi entrino a conoscenza del contenuto delle mail.

Informandone in modo adeguato il lavoratore, infatti, la corrente maggioritaria ritiene che sia possibile, per il datore di lavoro, controllare il contenuto delle mail e, eventualmente, licenziare il dipendente per violazione delle regole sull’utilizzo della casella di posta elettronica aziendale.

L’account di posta elettronica aziendale, dunque, non è in alcun caso di proprietà del lavoratore.  Sulla stessa linea si è mosso il Tribunale di Verona che, con una recente pronuncia (ord. del 29/12/2015), ha affermato l’impossibilità di proporre un’azione di reintegrazione del possesso di una mail aziendale, sostenendo che non sia presente l’elemento del cosiddetto corpus possessionis, ovvero quel potere assoluto sulla cosa richiesto dal codice civile ai fini dell’esperimento dell’azione.

Nell’articolo analizzerò inizialmente le azioni possessorie (con particolare riferimento ai beni immateriali), per poi analizzare il caso affrontato dal Tribunale di Verona.

 

Le azioni possessorie

Il codice civile definisce il possesso come un potere di fatto su una cosa che si configura in un’attività equivalente a quella che esercitano i detentori di un diritto reale: il possessore si comporta come proprietario o titolare di altro diritto reale sul bene (art. 1140: “Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”).

Le azioni possessorie (artt. 1168-1172 c.c.) hanno il fine di evitare che il possessore, pur non essendo il vero titolare del diritto reale sul bene, venga comunque privato violentemente o clandestinamente della cosa: si mira, dunque, a garantire una sorta di pace sociale (anche se è comunque il diritto di proprietà a prevalere sulla situazione di fatto del possesso).

I beni che possono essere oggetto di possesso, in questi termini, non potranno che essere gli stessi sui quali possono nascere dei diritti reali e, proprio per questo motivo, dottrina e giurisprudenza prevalenti tendono ad escludere la possibilità che il possesso possa formarsi su beni immateriali (che non sono cose corporali e possono essere utilizzate da più soggetti contemporaneamente), anche se in alcuni casi, come per l’energia elettrica, il possesso viene ammesso.

Quanto detto è tuttavia da contemperare con ciò che afferma l’articolo 15 della Costituzione (“La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”) che tutela l’inviolabilità e la segretezza della corrispondenza e di qualsiasi altra forma di comunicazione (tra cui vi rientrano le mail). In questo caso, sarebbe dunque possibile richiedere la reintegrazione del possesso del contenuto di una singola mail scambiata a tutela della segretezza della corrispondenza.

 

 

Il caso

Svolte le dovute premesse, si può passare all’analisi del caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Verona. Un soggetto presentava ricorso contro l’esclusione dal consiglio di amministrazione di una società e chiedeva la reintegrazione (tramite apposita azione possessoria ai sensi dell’art. 1168 c.c. “Chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.
L’azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità. Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio. La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto, senza dilazione) dell’account di posta elettronica aziendale che gli era stato revocato a seguito della decisione di esclusione.

Il Tribunale, tuttavia, respingeva questa domanda di reintegrazione sostenendo la mancanza dei presupposti richiesti dal codice ai fini della proposizione della stessa.

L’account di posta elettronica, infatti, in primis non costituirebbe un bene materiale (e la giurisprudenza è orientata verso la mancata configurazione del possesso sui beni immateriali), inoltre mancherebbe il requisito della completa ed esclusiva disponibilità del ricorrente richiesto espressamente dal codice civile ai fini dell’azione.

L’account di posta elettronica aziendale, infatti, non rappresenta un bene materiale, ma un semplice servizio messo a disposizione del soggetto dalla società-datore di lavoro, che ne mantiene comunque la titolarità: il personale può fruirne esclusivamente per fini aziendali.

Nella pronuncia il Tribunale ha peraltro sostenuto come, in caso di richiesta di reintegrazione non dell’account in generale, ma di semplici scambi di conversazioni contenute nelle mail, fosse possibile richiedere un’azione ai sensi dell’articolo 1168 c.c. vista la tutela offerta costituzionalmente alla segretezza della corrispondenza.

 

Conclusioni

Da questa breve analisi emerge come, a detta del Tribunale di Verona (e della giurisprudenza prevalente), l’account di posta elettronica aziendale non può in nessun caso essere oggetto di un’azione di reintegrazione in quanto costituisce un semplice strumento di lavoro messo a disposizione del prestatore e, seppur la comunicazione di una password possa farlo apparire come personale, la titolarità dell’account è comunque da ricondurre al datore di lavoro che la comunica sostanzialmente per evitare l’ingerenza di terzi sui contenuti delle mail.

Manca, dunque, in casi simili, l’elemento del corpus possessionis e dunque vi è carenza di legittimazione ad agire: in casi come quello analizzato vi sarà inammissibilità della domanda e, come già detto in precedenza (e come precisato anche dal Garante della privacy), qualora vi sia una chiara informativa sulla privacy aziendale sull’utilizzo della mail fornita, l’eventuale utilizzo improprio della stessa potrebbe anche portare a sanzioni disciplinari (ed eventualmente ad un licenziamento).

 

Dott. Luigi Dinella

 

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