In un mondo che è sempre più social, reperire informazioni in merito ad un determinato soggetto è diventato estremamente semplice. Ogni volta che conosciamo una persona nuova che ci incuriosisce, o ne sentiamo anche solo parlare, ci viene quasi automatico cercare il suo profilo sui vari social network per capire qualcosa di più su di lei.

Tuttavia, la facilità sempre crescente con cui è possibile mettersi in contatto con le persone, ha portato con sè tutta una serie di criticità: quante volte ci viene il sospetto che ad un determinato profilo non corrisponda una persona effettivamente reale? Vi è mai venuto il dubbio, quando comunicate online con qualcuno, che egli non sia chi dice di essere? Esistono, a questo proposito, una serie di illeciti che possono essere commessi in relazione all’utilizzo di dati personali altrui per creare un falso profilo social. Vediamone alcuni.

Abuso di immagine altrui

Il diritto all’immagine tutela la componente visivamente percepibile della nostra persona e configura un diritto fondamentale della stessa, regolamentato all’interno del nostro codice civile all’art. 10: “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni..”

A ben guardare, tuttavia, la lettera della norma non fornisce una definizione precisa di ciò che sia il “diritto all’immagine”, ma specifica piuttosto l’ipotesi in cui soggetti terzi commettano degli abusi nei confronti del titolare del diritto. Per avere un quadro completo di tale fondamentale diritto, risulta quindi necessario coordinare il citato art. 10 con le normative vigenti in materia di diritto d’autore (l. n. 633/41) e di riservatezza (d. lgs. n. 196/03). Da una lettura delle stesse infatti, emerge che la diffusione di un’immagine altrui è consentita solo previo consenso dell’interessato, unico elemento, quest’ultimo, utile ad esimere da responsabilità l’autore della messa in circolazione.

Il consenso del soggetto interessato

A questo punto, sembra opportuno chiarire quali siano le particolari forme che suddetto consenso debba assumere: nel caso di specie, la normativa vigente non prevede nessun profilo di specificità, potendo tale manifestazione di volontà avvenire sia espressamente che implicitamente. Il consenso non è richiesto, tuttavia, ogniqualvolta la pubblicazione miri a soddisfare un interesse pubblico prevalente, come può essere la tutela del diritto all’informazione, per cui risulti necessaria la conoscenza delle sembianze fisiche dei soggetti a cui si fa riferimento. Allo stesso modo, a norma dell’art. 97, comma 1, della l. n. 633/41, non occorre il consenso quando la persona è nota o viene fotografata in virtù di qualche ufficio pubblico che ricopre, o per ragioni di giustizia o di polizia, o per ogni altro caso specificato dall’articolo di riferimento. Tuttavia, l’obbligo di ottenere il consenso da parte dell’interessato permane, nonostante ricorra una delle ipotesi di esclusione sopra riportate, quando l’esposizione o la messa in commercio di tali immagini può arrecare danno alla reputazione ed al decoro della persona ritratta (art. 97, comma 2).

Conseguenze sul piano pratico

Posto che, a norma dell’art. 4 del D.lgs n. 196/03 (Codice della privacy), l’immagine di una persona è da qualificarsi come “dato personale”, l’illecita pubblicazione di immagine altrui senza previo consenso, assume rilevante importanza sotto il profilo civile, penale e amministrativo.

Sul piano civile, il soggetto che ha subito la lesione del diritto all’immagine ha la possibilità di richiedere in sede giudiziale il risarcimento del danno patrimoniale e non, ma per ottenerlo dovrà necessariamente provarlo, diversamente potrebbe essere valutato in via equitativa.

Le criticità si verificano in particolare quando il soggetto che ha subito la lesione non sia un personaggio pubblico e non vi sia quindi un “valore commerciale” di riferimento per la propria  immagine: infatti, in tali ipotesi il rischio è quello che un eventuale giudice possa non riconoscere il giusto patimento subito in occasione della pubblicazione delle immagini, non avendo un parametro di riferimento di tali foto.

Lo stesso vale anche per il danno non patrimoniale, inteso come ogni lesione di un valore inerente alla persona protetto dalla Costituzione – come può essere la reputazione – da cui derivino pregiudizi non suscettibili di valutazione economica quale conseguenza della pubblicazione della propria immagine.

Per quel che concerne il profilo penale invece, come sancito dalla Suprema Corte di Cassazione, la divulgazione di immagini altrui attraverso un profilo Facebook creato illegittimamente appare idonea ad integrare il reato di diffamazione aggravata di cui all’art. 595, comma 3, c.p. La sentenza in questione, n. 4741, statuiva, a tal proposito, che: «il reato di diffamazione aggravata è configurabile anche quando la condotta dell’agente consista nell’immissione di scritti o immagini, lesivi dell’altrui reputazione, nel sistema “internet”, sussistendo, anzi, in tal caso, anche la circostanza aggravante di cui all’art. 595, comma 3, c.p.».

Oltre alla disposizione appena citata, è possibile individuare un’altra norma che punisce penalmente il soggetto responsabile della divulgazione dell’altrui immagine. Si tratta dell’art. 167 del Codice Privacy il quale recita quanto segue:

“Salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, chiunque, al fine di trarne per se’ o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo 129, e’ punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi.
Salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, chiunque, al fine di trarne per se’ o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, e’ punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni.”

E’ evidente, quindi, che ai fini della congfigurabilità della fattispecie delittuosa, sia necessario che il soggetto abbia agito al solo scopo di “trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno”, che rende quindi necessario provare l’effettiva sussistenza di tali elementi (si tratta del cd. dolo specifico)

Per ultimo oltre alle conseguenze sotto il profilo risarcitorio e penale occorre evidenziare la possibilità per l’autore della pubblicazione e diffusione dell’altrui immagine, di incorrere in sanzioni amministrative, per altro molto salate: l’art. 162 del predetto codice, al comma 2 bis individua sanzioni che possono arrivare sino ai 120.000 euro nei casi più gravi per l’autore del reato di cui all’art. 167.

La sostituzione di persona

Come accennato all’inizio, un illecito che con l’avvento delle nuove tecnologie si registra in continuo aumento è quello disciplinato dall’art. 494 del codice penale, relativo alla sostituzione di persona. A norma di tale articolo, il reato in questione si concretizza ogniqualvolta un soggetto sostituisca la propria identità con quella di un’altra persona oppure attribuisca a sé o ad altri un falso stato o una falsa qualità.

Nel 2014, la Cassazione, con la sent. n. 25774, ha esteso la portata applicativa di tale fattispecie, stabilendo che questo reato si configuri, anche attraverso la condotta di colui che crea e utilizza un account su un social network (che in quel caso era Badoo) al fine di usarlo per molestare o disturbare altre persone, nascondendosi dietro un nome non suo.  Nello specifico, il profilo riproduceva l’immagine della persona offesa, riferendovi informazioni tutt’altro che positive e con questa identità fasulla usufruiva di tutti i servizi del social, fra cui possibilità di comunicare con gli altri iscritti, indotti in errore dalla sua identità.

Come la stessa Corte si era già preoccupata di sottolineare in precedenti pronunce (Cass., sez.V, n. 13926/2013), il dolo specifico richiesto perché si possa effettivamente configurare il delitto di cui all’art. 494 c.p., consiste nel voler procurare a sé o ad altri un vantaggio (patrimoniale o no), oppure di recare ad altri un danno. Entrambi gli aspetti si erano verificati nel caso di specie, dal momento che il vantaggio non patrimoniale si era concretizzato nel piacere derivante dall’intrattenere rapporti con altre persone (prevalentemente donne) e il danno era stato inferto alla vittima attraverso le continue offese ricevute da coloro importunati.

Conclusioni

Al termine di quanto esposto, è evidente come la nuova accezione di identità, intesa come identità digitale, che si è andata affermando nel corso di questi ultimi anni, abbia portato con sé un considerevole numero di rischi ad essa intrinsecamente collegati.

L’auspicio è che tutti coloro che decidono di entrare nel mondo dei social, lo facciano cercando di salvaguardarsi nel miglior modo possibile, attraverso la configurazione di buone impostazioni di privacy. Per correttezza, è da specificare che spesso nemmeno questo tipo di tutela risulta sufficiente: il pericolo di essere vittima di illeciti è sempre in agguato. Tuttavia, non è questo a dover scoraggiare: ogni comportamento ha le sue conseguenze e, con ogni probabilità, i responsabili verranno individuati, soprattutto sul web, dove nulla viene mai cancellato completamente.

Dott.ssa Giulia Grani

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