I fattori ambientali (come le condizioni climatiche o la composizione del suolo) e i fattori umani (come la presenza di tradizioni manifatturiere o di lavorazioni tipiche della zona) possono influenzare in modo molto rilevante alcune tipologie di prodotti, soprattutto nel settore agroalimentare, e di conseguenza indirizzare le scelte di acquisto dei consumatori. Si pensi che l’Italia è il primo paese in Europa per numero di prodotti tipici registrati nel settore agroalimentare e vitivinicolo, realizzando un fatturato mondiale annuo di circa 15 miliardi di euro (fonte: XV Rapporto Ismea – Qualivita del 28 gennaio 2018).

In considerazione di ciò, gli ordinamenti giuridici nazionali, così come quello europeo, tutelano l’interesse degli imprenditori a contraddistinguere i propri prodotti in ragione della loro provenienza geografica, quando questa ne condiziona le caratteristiche. Gli strumenti giuridici previsti sono, da un lato, il marchio d’impresa, individuale e collettivo, disciplinato dal diritto nazionale (in particolare dal d.lgs. 30/2005, il Codice della proprietà industriale, o “c.p.i.”) ed europeo, e dall’altro lato, con specifico riferimento ai prodotti agroalimentari, le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche disciplinate a livello europeo.

Il marchio geografico.

Con il termine “marchio geografico” ci si riferisce a un marchio indicativo di un luogo concretamente individuato (quale può essere, ad esempio, il nome di una città, di una regione, di un lago ecc.).

La legge prevede che un marchio di questo tipo possa essere registrato come marchio individuale solo se si presenta come nome “di fantasia”, cioè quando il nome geografico utilizzato, nella percezione dei consumatori, non è in grado di influenzare le caratteristiche di quel determinato prodotto (sarebbe, ad esempio, registrabile il marchio individuale “Cortina” per delle sigarette).

Questa particolarità trova fondamento anzitutto nella mancanza di capacità distintiva del segno che, oltre a indicare una provenienza geografica, stimoli anche un’aspettativa dei consumatori in relazione alla qualità del prodotto originario di quel luogo. Si pensi, ad esempio, al nome “Parma” per il prosciutto crudo. In questo caso, infatti, il segno sarebbe “descrittivo” della qualità del prodotto, e quindi non registrabile come marchio in quanto non sarebbe in grado di comunicare ai consumatori l’origine “imprenditoriale” del prodotto, come previsto anche dall’art. 13, comma 1, lett. b) c.p.i. (la norma così recita: “Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare: […] b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”).

A conferma di questo, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) si è pronunciata in più occasioni a tutela dei consumatori dichiarando che la pubblicità di un prodotto alimentare in cui siano utilizzate indicazioni geografiche non corrispondenti al vero luogo di produzione dell’alimento integra una forma di pubblicità ingannevole ai sensi del d.lgs. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo) e come tale vietata.

In aggiunta, come più volte precisato anche dalla Corte di Giustizia dell’UE, si è voluto evitare il rischio di creare un monopolio individuale su toponimi espressivi della qualità dei prodotti, che potrebbe soffocare l’iniziativa economica degli imprenditori di quella determinata zona geografica.

Il principio appena esposto, in base al quale il nome di un’area geografica non può essere oggetto di registrazione come marchio, subisce alcune eccezioni. In particolare, un toponimo sarà registrabile come marchio, oltre al caso già visto in cui sia usato in funzione di mera fantasia, anche quando si tratta di un marchio collettivo.

Questa deroga è esplicitamente prevista dalla legge, e precisamente dall’art. 11, comma 4 c.p.i. (la norma prevede: “In deroga all’articolo 13, comma 1, un marchio collettivo può consistere in segni o indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o servizi. In tal caso, peraltro, l’Ufficio italiano brevetti e marchi può rifiutare, con provvedimento motivato, la registrazione quando i marchi richiesti possano creare situazioni di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione. L’Ufficio italiano brevetti e marchi ha facoltà di chiedere al riguardo l’avviso delle amministrazioni pubbliche, categorie e organi interessati o competenti. L’avvenuta registrazione del marchio collettivo costituito da nome geografico non autorizza il titolare a vietare a terzi l’uso nel commercio del nome stesso, purché quest’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale”).

Il fatto che sia possibile registrare come marchio collettivo un segno che non sarebbe validamente registrabile come marchio individuale ha fondamento nella diversa funzione che questo segno svolge.

Il marchio collettivo è, infatti, un segno che per legge ha non solo una funzione di indicazione di provenienza, collegando il prodotto a una pluralità di imprese legittimate a usarlo (il marchio collettivo viene infatti registrato a nome dell’organizzazione di cui fanno parte le imprese che poi lo useranno), ma anche di garanzia qualitativa per il consumatore finale, assicurando l’origine, la natura e la qualità del prodotto su cui è apposto. Nella realtà delle cose, infatti, molto spesso la qualità intrinseca di un prodotto deriva proprio dalla sua origine geografica.

Le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche.

Sul piano pratico, tuttavia, l’impiego degli strumenti previsti dalle norme in materia di marchi è risultato poco adatto. Infatti, come visto sopra, da un lato l’utilizzo del marchio geografico individuale è di regola precluso, dall’altro il marchio collettivo può presentare problemi derivanti dalla difficoltà di coordinamento tra le imprese utilizzatrici.

Alla necessità di garantire un’adeguata tutela alle indicazioni geografiche ha dato risposta il legislatore europeo con diversi Regolamenti (l’ultimo in ordine di tempo è il Regolamento n. 1151/2012) che hanno introdotto una disciplina specifica per le “Denominazioni di Origine Protetta” (o DOP) e le “Indicazioni Geografiche Protette” (o IGP). In particolare, la DOP identifica prodotti aventi qualità dovute essenzialmente o esclusivamente ai fattori naturali e umani, risultato di una tradizione locale (il c.d. milieu), e le cui fasi produttive avvengono tutte in una zona geografica delimitata (come previsto dal disciplinare di produzione). L’IGP, invece, identifica prodotti originari di un determinato luogo al quale sia riconducibile anche solo una qualità, la reputazione o altre singole caratteristiche, a condizione che la produzione si svolga, per almeno una delle sue fasi, nella zona geografica delimitata. I requisiti di accesso a quest’ultima forma di tutela sono quindi meno stringenti: spicca, in particolare, la richiesta di un legame tra processo produttivo e territorio che è meno intenso rispetto a quello richiesto per l’accesso alla DOP.

Grazie a questa forma di certificazione europea sono assicurate maggiori garanzie ai consumatori, perché permette di creare un livello di tracciabilità e di sicurezza alimentare più elevato rispetto ad altri prodotti. Numerosi sono, anche in questo caso, i provvedimenti adottati dall’AGCM a tutela dei consumatori, attraverso cui è stato accertato, ad esempio, un indebito utilizzo o evocazione in ambito pubblicitario di DOP o IGP, oppure un’indebita esibizione di qualità il fine di provocare una falsa aspettativa nei consumatori sulle caratteristiche del prodotto. Condotte di questo tipo integrano fattispecie di pratiche commerciali scorrette o ingannevoli, come tali vietate dal Codice del Consumo (in particolare dagli artt. 20 e 21) e frequentemente sanzionate dall’Autorità Garante.

Il rapporto tra DOP, IGP e marchi.

Uno stesso nome geografico può essere registrato come DOP o IGP e contemporaneamente, con le dovute limitazioni, anche come marchio d’impresa. Questa possibilità dà luogo, inevitabilmente, a dei problemi nell’individuare la disciplina applicabile, come dimostrato anche dalle numerosissime pronunce della Corte di Giustizia dell’UE sull’argomento (tra le più note quella sul caso Gorgonzola/Cambozola e quella sul caso della birra Bavaria).

In linea di massima, volendo semplificare regole in realtà molto complesse e articolate, una DOP/IGP registrata prevarrà, anzitutto, sul marchio di cui viene chiesta la registrazione in un momento successivo. In questo caso la domanda di registrazione del marchio sarà respinta, o il marchio comunque registrato sarà nullo (come previsto dall’art. 14, paragrafo 1 del Regolamento: “Qualora una denominazione di origine o un’indicazione geografica sia registrata ai sensi del presente regolamento, la registrazione di un marchio il cui uso violerebbe l’articolo 13, paragrafo 1, e che riguarda un prodotto dello stesso tipo è respinta se la domanda di registrazione del marchio è presentata dopo la data di presentazione della domanda di registrazione relativa alla denominazione di origine o all’indicazione geografica presso la Commissione. I marchi registrati in violazione del primo comma sono annullati”). Nel caso in cui, invece, sia stato registrato prima il marchio, esso dovrà coesistere con la successiva DOP/IGP (come previsto dall’art. 14, paragrafo 2: “Fatto salvo l’articolo 6, paragrafo 4, un marchio il cui uso violi l’articolo 13, paragrafo 1, di cui sia stata depositata la domanda di registrazione, che sia stato registrato o, nei casi in cui ciò sia previsto dalla legislazione pertinente, acquisito con l’uso in buona fede sul territorio dell’Unione anteriormente alla data di presentazione alla Commissione della domanda di protezione della denominazione di origine o dell’indicazione geografica, può continuare a essere utilizzato e rinnovato per il prodotto di cui trattasi nonostante la registrazione di una denominazione di origine o di un’indicazione geografica […]. In tali casi l’uso della denominazione di origine protetta o dell’indicazione geografica protetta, nonché l’uso dei marchi in questione, è consentito”) a meno che non si tratti di un marchio molto conosciuto, nel qual caso potrà prevalere sulla DOP/IGP (come previsto dall’art. 6, paragrafo 4: “Un nome proposto per la registrazione come denominazione di origine o indicazione geografica non è registrato qualora, tenuto conto della notorietà e della reputazione di un marchio e della durata di utilizzazione dello stesso, la registrazione del nome proposto come denominazione di origine o indicazione geografica sarebbe tale da indurre in errore il consumatore quanto alla vera identità del prodotto”).

Si può notare come la scelta del legislatore europeo sia andata nel senso di prevedere non tanto una regola generale, ma piuttosto una disciplina differenziata a seconda dei casi.

Il regolamento europeo ha previsto infatti che non operi il principio generale secondo il quale i diritti acquistati anteriormente prevalgono su quelli successivi. L’applicazione di questo principio presupporrebbe, invero, un regime paritario di fondo tra le indicazioni geografiche e i marchi, ignorando quella che invece si delinea come una superiorità, riconosciuta dal legislatore europeo, delle prime sui secondi.

Appare evidente, infatti, che agli occhi delle istituzioni europee le DOP/IGP non sono paragonabili agli altri diritti di proprietà intellettuale, ma si configurano piuttosto come strumenti che consentono di raggiungere finalità ulteriori, quali: la promozione delle politiche agricole degli stati membri, la salvaguardia delle tradizioni produttive locali e la tutela dell’interesse dei consumatori alla sicurezza e alla qualità dei prodotti, a un’adeguata informazione e a una corretta pubblicità e a che le pratiche commerciali siano esercitate secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà.

Dott.ssa Myriam Mazzonetto

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