Può un utente bloccare i propri follower che lo criticano su Twitter?

Se questa azione è compiuta da un comune cittadino, la risposta non può che essere affermativa.

Se si tratta di un personaggio pubblico che ricopre una carica istituzionale come il Presidente degli Stati Uniti, le cose stanno diversamente. Così facendo si viola palesemente il primo emendamento della Costituzione americana che sancisce l’inviolabilità della libertà di parola e di stampa.

È quanto stabilito da una sentenza pronunciata dal giudice della Corte del Distretto Meridionale di New York, Reice Buchwald che il 23 maggio 2018 ha intimato di porre fine a questa prassi presidenziale ritenuta palesemente incostituzionale.

Il caso oggetto della sentenza

L’11 luglio 2017, il Knight First Amendment Institute della Columbia University (l’organizzazione sorta nel 2016 per difendere la libertà di parola e di stampa nell’era digitale) intentava una causa per conto di sette persone bloccate dall’account @realDonaldTrump. L’Istituto sosteneva che Donald Trump e Dan Scavino, il responsabile dei social media del Presidente, con la propria condotta avessero violato il diritto di libertà di parola degli utenti, negando loro la possibilità di interagire con i tweet dello stesso Trump.

All’epoca dei fatti contestati, l’account Twitter @realDonaldTrump contava infatti circa 33,7 milioni di follower. Nel giugno 2017, l’allora portavoce della Casa Bianca Sean Spicer, dichiarava che i tweet del Presidente degli Stati Uniti dovevano considerarsi alla stregua di “dichiarazioni ufficiali”. Appena un mese più tardi, lo stesso Trump sosteneva ironicamente che il suo utilizzo dei social network non fosse presidenziale, bensì “presidenziale moderno” (letteralmente “modern day presidential” ndr).

Sulla scorta di queste dichiarazioni, in una lettera indirizzata al Presidente e al suo staff, il Knight Institute chiedeva quindi che gli account di due utenti venissero sbloccati, sul presupposto che l’account personale Twitter dell’ex tycoon fosse un forum pubblico e che pertanto la rimozione dei commenti critici o dissenzienti dovesse considerarsi incostituzionale. Tuttavia, l’amministrazione Trump non ha mai risposto alla missiva.

Le motivazioni a sostegno dello sblocco degli utenti venivano quindi trasposte nella causa presentata dinanzi alla Corte del Distretto Meridionale di New York, in cui si sosteneva che, come già deciso in un caso analogo riguardante Facebook, i funzionari governativi non potessero bloccare gli utenti dei social media a seguito delle critiche riguardanti l’operato di un personaggio politico.

La sentenza della Corte Distrettuale

La decisione si basa sul principio della libertà d’espressione consacrato nel Primo Emendamento della Costituzione Americana. Il Giudice Buchwald sancisce che, nel caso in cui le critiche fossero state mosse nel contesto di una discussione politica, esse stesse siano meritevoli di tutela in quanto espressione della manifestazione del pensiero degli utenti di Twitter.

Non solo: Reice Buchwald analizza e si interroga circa la qualificazione giuridica del cosiddetto “spazio interattivo”, ovvero lo spazio all’interno del quale gli utenti di Twitter si trovano direttamente ad interagire con il contenuto dei tweet del Presidente eventualmente identificabile nel concetto del “forum pubblico designato”.

Questa indagine appare di estrema importanza poiché se questo spazio è considerato un forum pubblico, il Primo Emendamento limita la capacità dello stesso Trump di censurare o escludere i partecipanti dalla discussione. La Costituzione Americana definisce infatti il forum pubblico designato come lo spazio che il Governo apre al pubblico “in quanto luogo di attività di espressione”. Spazio che può essere identificato non solo in un luogo fisico, ma anche in uno spazio “metafisico”, senza cioè una specifica collocazione fisica.

In base a queste considerazioni, il Primo Emendamento dev’essere necessariamente inteso come un divieto imposto al governo di limitare “il diritto di un individuo di parlare liberamente e di difendere le proprie idee”, espresse cioè in base al proprio punto di vista ed all’interno di un forum pubblico designato.

La Corte fonda quindi la sua motivazione sul fatto che lo spazio interattivo per le risposte o i retweet presenti su “@realDonaldTrump” è “generalmente accessibile al pubblico” e qualsiasi utente di Twitter può seguire o rispondere all’account a meno che quella persona non sia stata bloccata.

Inoltre, secondo lo stesso Scavino, Trump utilizza Twitter per “comunicare direttamente con il popolo americano” in relazione ad una vasta gamma di argomenti o generalmente per “condurre gli affari del Governo”.

Del resto, osserva il Giudice Buchwald, è stato il Presidente ad utilizzare il suo account per reintrodurre il divieto di accesso al servizio militare ai transgender. Tuttavia, anche in questo caso, agli utenti bloccati è stato impedito di interagire direttamente con questi tweet dai loro account personali. Chiaramente, conclude la Corte, ciò non può avvenire in uno spazio virtuale pubblico frequentemente utilizzato per l’”attività espressiva”.

A seguito della decisione – che non riveste il carattere di ingiunzione tale da poter ordinare lo sblocco degli account – e pur manifestando “un rispettoso disaccordo”, il Governo americano ha comunicato al Knight First Amendment Institute l’avvenuto sblocco degli utenti dall’account @realDonaldTrump, creando così un importante precedente giudiziale evocabile in analoghi procedimenti sulla questione.

In Italia: l’esercizio del diritto di critica e di cronaca sul web

In Italia, il diritto di critica è diretta manifestazione del principio costituzionale riguardante la libertà di espressione sancito dall’art. 21, il quale pone come unico limite il rispetto dell’onore e della dignità del destinatario verso cui le critiche sono indirizzate.

Diversamente, il rischio è quello di veder tramutare la critica in una diffamazione vera e propria, fattispecie di reato prevista e punita dall’articolo 595 del Codice Penale.

Con riferimento alla pubblicazione di un contenuto lesivo dell’onore e della reputazione di un soggetto tramite l’utilizzo di un social network, l’orientamento recentemente espresso dalla Corte di Cassazione è unanime nel considerare integrato il reato di diffamazione aggravato dall’utilizzo di altro mezzo di pubblicità, di cui al terzo comma dell’art. 595 c.p. e ciò in considerazione dell’elevato numero dei destinatari potenzialmente raggiungibili.

Tuttavia, analogamente a quanto previsto per la diffamazione a mezzo stampa, anche per quella effettuata tramite social network è applicabile l’esimente del diritto di cronaca. Di conseguenza, quando vengono rispettati determinati requisiti, una condotta astrattamente diffamatoria non è punibile se è espressione del diritto di cronaca o di critica.

La giurisprudenza ha infatti elaborato i princìpi applicabili alla professione giornalistica nel cosiddetto “decalogo del giornalista”: in base ad essi sussiste l’esimente del diritto di cronaca allorché siano rispettati questi tre presupposti: la verità dei fatti narrati, la continenza e correttezza della forma espositiva utilizzata, (ovvero la proporzionata rispetto alla rilevanza dei fatti esposti) e l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riportati.

Sussistendo tali requisiti, la pubblicazione di una notizia costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca e, conseguentemente, esime il giornalista da qualsiasi responsabilità penale.

È legittimo quindi criticare un politico su Twitter senza essere “bannati”?

I social network sono divenuti col tempo luogo di scambio e di confronto delle reciproche opinioni politiche, spesso caratterizzate contenuti particolarmente aspri e fortemente critici.

L’esercizio del diritto di critica, quale fondamentale corollario della più ampia libertà di espressione è pertanto sempre ammesso, purché si non travalichino i limiti espressi dal “decalogo del giornalista” e tali da configurare il reato di diffamazione a mezzo stampa.

Il rispetto di tali limiti in ogni caso non impedisce di per sé di “bloccare” quegli utenti che esprimano critiche ritenute sgradite, non sussistendo un principio che imponga ad una figura istituzionale di interagire con gli utenti che manifestino un’opinione discordante dalla propria.

Insomma, a ciascuno il proprio diritto: di criticare, ma anche di “bannare”.

 

Dott. Ercole Dalmanzio

 

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