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Il web ed i social network rappresentano i mezzi di comunicazione più diffusi al mondo e permettono che tutti i contenuti che in essi vengono caricati diventino raggiungibili e consultabili da chiunque in qualsiasi parte del mondo. Ciononostante, la potenzialità intrinseca di questa diffusività è divenuta oggetto di molteplici abusi, dando vita a condotte illecite.

I comportamenti assunti sul web e sui social network sono assolutamente immateriali, tuttavia questa loro caratteristica non permette di tenerli indenni dalla possibilità di assumere una valenza penale e, quindi, di configurare un reato.

Questo è quanto è stato sottolineato dalla Corte di Cassazione nella recente sentenza n. 22163 del 21 febbraio 2019. In particolare, la Suprema Corte si è pronunciata sulla “smaterializzazione”, quale modalità di manifestazione delle condotte poste in essere sul web e sui social network, ed ha ribadito che essa non è caratteristica sufficiente per negare “la specifica e incontestabile offensività” delle stesse in ragione della lesione arrecata a beni giuridici protetti.

Inevitabilmente il comportamento posto in essere sul web produce i suoi effetti nel mondo reale e, quando quel comportamento online è idoneo ad incitare qualcuno a compiere un fatto illecito offline, allora si configurerà l’ipotesi di reato prevista dall’art. 414 del Codice penale (Istigazione a delinquere).

È proprio partendo da questa fattispecie che la Corte di Cassazione ha affrontato la valenza giuridica, il disvalore penale, dei post pubblicati sui social network.

Istigazione a delinquere ed apologia

Nell’ottica di repressione e prevenzione dei fenomeni riguardanti gli abusi su Internet, il legislatore è intervenuto con legge n. 43/2015 per modificare l’art. 414 del Codice penale, aumentando la pena prevista per l’istigazione a delinquere (pari sino ad un anno per le contravvenzioni e da un anno a cinque anni per i delitti) qualora la condotta sia posta in essere attraverso strumenti informatici o telematici.

L’istigazione si configurerà allorquando un soggetto pubblicamente induca qualcuno a commettere uno o più reati per il solo fatto dell’incitamento. L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, per cui consiste nella cosciente volontà di commettere il fatto in sé, mentre è irrilevante lo scopo per il quale si è agito.

L’art. 414 c.p. punisce due differenti condotte: l’istigazione intesa come “sollecitazione all’insorgenza ovvero al rafforzamento dell’altrui proposito criminoso” e l’apologia, che viene definita come “l’esaltazione di un fatto delittuoso finalizzata a determinarne l’emulazione”. Per la prima condotta non serve che l’induzione porti alla commissione del fatto, mentre per la seconda è necessario che si determini il rischio di consumazione di delitti lesivi di interessi analoghi a quelli offesi nel crimine esaltato.

L’orientamento giurisprudenziale

La pubblicazione sui social network di post contenenti immagini e video inneggianti l’ISIS è idonea, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione con la recente sentenza sopra richiamata, a configurare il reato di cui all’art. 414. Vediamo come si è arrivati dai fatti a questa conclusione giuridica.

Secondo l’art. 266 c.p. il reato è avvenuto pubblicamente quando il fatto è stato commesso “per mezzo della stampa o di altro mezzo di propaganda”. Gli strumenti telematici o informatici, tra cui i siti web ed i social network, in virtù della destinazione del messaggio ad una pluralità di destinatari, soddisfano per loro natura intrinseca il requisito di pubblicità richiesto, così come definito. Nel caso di specie, gli imputati avevano condiviso e pubblicato su social network materiale di propaganda dell’ISIS (immagini, video, post, commenti), contenente il giuramento di fedeltà all’organizzazione ed esaltazioni delle azioni militari del conflitto bellico a cui IS (Stato Islamico) ha preso parte.

Anche Sentenza del 15 maggio 2017, n. 24103 della 1° Sez. penale, Corte di Cassazione si era pronunciata su questo tema, sottolineando che per la configurazione del reato non rileva la tipologia dei reati in relazione ai quali si esplica l’attività comunicativa, ma le modalità con cui la comunicazione viene fatta. Di conseguenza, si esclude la sussistenza del fatto illecito nel caso in cui la diffusione “sia circoscritta in ambito esclusivamente privato e interpersonale, come nel caso di conversazioni o chat private di un social network”. Mentre il reato si configurerà ogni volta che la diffusione di un messaggio o documento apologetico avverrà “attraverso il suo inserimento su un sito internet privo di vincoli di accesso”, e perciò liberamente leggibile da chiunque.

Per quanto riguarda invece le condotte punite occorre fare alcune precisazioni. Ai fini dell’integrazione del delitto di istigazione a delinquere e di apologia, secondo la Corte occorre che la condotta istigatrice o apologetica sia idonea a turbare l’ordine pubblico. Affinché ciò accada non è sufficiente che la pubblicazione coincida con una mera esternazione di un giudizio positivo su un evento criminoso, ma occorre che quella condotta determini un rischio effettivo, concreto, di consumazione di altri reati. Quel rischio potrà essere definito effettivo e concreto solo a seguito di una valutazione del contesto ambientale che tenga conto del contenuto intrinseco del comportamento o del messaggio veicolato, delle condizioni personali dell’autore ed infine delle circostanze di fatto in cui si esplica.

A parere della Corte, ognuno di questi contenuti può rappresentare un “pervasivo strumento di manipolazione comunicativa”, che, pur non incidendo direttamente sulla realtà, la veicola. L’orientamento del consenso che deriva da queste attività di propaganda e apologia, nel caso di specie, secondo la pronuncia in questione, può addirittura essere valutato alla stregua di una partecipazione morale, di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso o di sostegno psicologico all’organizzazione criminosa.

Un ulteriore caso di istigazione a delinquere è quello analizzato nella sentenza 196/2018. Secondo la Corte di Cassazione si configura il reato di istigazione a delinquere anche nel caso in cui su un social network vengano pubblicati annunci di vendita di semi di cannabis. Nel caso di specie, oltre a ritenersi soddisfatto il requisito della pubblicità, a parere dei giudici, la condotta posta in essere dall’imputato presentava “il carattere di idoneità con riferimento alle modalità tramite le quali la stessa era posta in essere, dato che la detenzione dei semi era accompagnata dalle specifiche indicazioni circa le modalità con le quali le piantine ottenute con gli stessi avrebbero dovuto essere coltivate”. In tal modo è evidente che non solo si fornisca il mezzo per delinquere, ma anche le istruzioni affinché ciò sia possibile.

Tra i contenuti pubblicabili sui social network, quello che prevede un minore impulso, rispetto alla pubblicazione o condivisione di un post, è il “like”. La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi anche sul disvalore penale da attribuire a questa attività. Nonostante consista in un semplice click, l’apposizione del “Mi piace” permette ad ogni modo la diffusione del contenuto oggetto del proprio assenso. Al pari di un video con una condivisione di breve durata (11 giorni), il “like” non presenta una portata offensiva minore rispetto ad attività dove è previsto un maggior impulso; di conseguenza, attesa la funzione divulgativa dei social network, anche in questo caso non è possibile escludere la configurabilità del delitto di istigazione a delinquere o apologia, tanto da essere valutato alla stregua di un indizio di colpevolezza per l’applicazione di una misura cautelare in carcere (Corte di Cassazione, sentenza n. 55418/2017 in relazione al reato di terrorismo internazionale).

Cenni sul ruolo dell’Internet Service Provider

È indiscussa la responsabilità dell’autore delle condotte descritte, ma, a tal punto, sarebbe lecito chiedersi che ruolo assumono a riguardo gli Internet Service Provider. Quali fornitori di servizi in internet (art. 7 d.lvo 70/2003), gli ISP rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona, ma possono rispondere anche nel caso in cui abbiamo ospitato o trasmesso contenuti integranti una condotta illecita?

A riguardo vi è la sentenza n. 12546 del 20.3.2019, la quale, pronunciandosi sulla diffamazione a mezzo internet, ha ritenuto il gestore del sito responsabile in concorso con l’autore dei contenuti lesivi del bene giuridico tutelato. La responsabilità dell’ISP si configura solamente nel caso in cui egli, nell’attività di hosting, venuto a conoscenza della pubblicazione da parte di terzi di contenuti diffamatori, “non si attivi tempestivamente” per rimuoverli, in quanto la sua condotta omissiva congiunta alla potenziale diffusività del sito ha permesso l’ulteriore divulgazione dell’offesa. La Corte, riprendendo l’orientamento della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), esclude la possibilità di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per qualsiasi contenuto pubblicato da un utente, ritenendo impossibile individuare un obbligo di sorveglianza ex ante, preventiva.

Conclusioni

Le brevi considerazioni su esposte debbono portare ad una riflessione sui comportamenti assunti sul web e soprattutto sui social network e su quali siano i limiti tra il lecito e l’illecito.

Esemplari a riguardo sono le parole della Corte Costituzionale che, chiamata a pronunciarsi sulla asserita incostituzionalità dell’art. 414 c.p. per la violazione della libertà di manifestazione del proprio pensiero (sancita dall’art. 21 della Costituzione), ha affermato che “la libertà di manifestazione del pensiero trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nella esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema”. Si tratta di una pronuncia del 1970, che, tuttora, nell’era di internet, conserva la sua attualità, dal punto di vista giuridico e per la sua portata pedagogica, dal punto di vista sociale.

Con ciò è possibile affermare che, al pari della realtà, anche nel cyberspazio vige un diritto penale. A cambiare è solo la modalità dell’azione.

Redazione Diritto dell’Informatica

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