privacy informatica

Accade spesso navigando nel web, specie nei social network, di imbattersi in commenti particolarmente pungenti o in video pubblicati da alcuni utenti che a volte manifestano le proprie opinioni in maniera ineducata ed a tratti offensiva. Tali condotte potrebbero comportare importanti conseguenze anche sotto il profilo legale ed è per tale motivo che nei paragrafi che seguono forniremo un approfondimento a tali tematiche, cercando di fare chiarezza su questioni che appaiono sempre più frequenti nell’era dell’on line.

L’avvento dei social network e l’incremento dell’attività comunicativa online

Con l’avvento e la straordinaria diffusione dei social network, si sono moltiplicate le possibilità per ciascuno di noi di esprimere le proprie opinioni, rendendole pubbliche e diffondendole ad una platea composta (potenzialmente)  da milioni di utenti.

Tra gli altri, i social network Facebook e Twitter sono diventati così dei punti di incontro, in quanto gli utenti, mediante vere e proprie aggregazioni virtuali (si pensi ai gruppi presenti su Facebook) si scambiano consigli e punti di vista su argomenti tra i più svariati possibili. Così come nascono però dissapori e litigi nella vita quotidiana “materiale”, tali accadimenti si realizzano a maggior ragione on line, dove diverse persone, in alcuni casi utilizzando un nome fittizio o uno pseudonimo, si sentono libere di esprimersi senza alcun freno inibitorio. E’ bene sapere che a volte, le affermazioni effettuate on line possono esporre l’autore ad importanti conseguenze soprattutto sotto il profilo penale.

Il reato di diffamazione. Considerazioni preliminari

In Italia il reato di diffamazione è regolato dall’art. 595 del codice penale, il quale punisce chiunque, comunicando con più persone, offenda l’altrui reputazione, essendo considerato l’onore un bene meritevole di tutela. E’ opportuno chiarire che la reputazione individuale rappresenta l’opinione che l’individuo gode in seno alla società per carattere, ingegno, abilità professionale ed attributi personali e che quindi non s’identifica solo con la considerazione che ciascuno ha di sé (per il semplice amor proprio).  Affinché la condotta del soggetto agente sia idonea ad integrare il reato è richiesta la presenza necessaria e contemporanea dei seguenti elementi: l’offesa alla reputazione di un soggetto determinato o determinabile, la comunicazione di tale messaggio a più persone e la volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza di offendere (c.d. dolo generico).

Affinchè il soggetto leso possa ritenersi diffamato, non è necessario che egli sia espressamente individuato dal soggetto agente attraverso la rivelazione dei relativi dati anagrafici; ai fini della configurabilità del reato è infatti sufficiente anche l’utilizzo di un soprannome, purché tale soprannome permetta l’identificazione della persona.

La diffamazione mediante social network e l’applicabilità dell’aggravante prevista dalla fattispecie normativa

Tale fattispecie di reato prevede un’aggravante disposta dal terzo comma del medesimo articolo, che si applica nelle ipotesi in cui l’offesa sia stata recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico. Infatti appare evidente che una cosa è diffamare il vicino di casa con gli altri condomini, (con applicazione dell’art. 595, comma 1, c.p., che fa riferimento alla comunicazione “con più persone”) altra cosa è farlo  in un sito web il cui accesso è consentito ad un numero indeterminato di utenti: in questi casi il comma 3 dell’articolo sopra citato dispone prevede una pena aumentata.

Ci si è chiesto se tale aggravante possa essere applicabile anche nelle ipotesi in cui la diffamazione venga realizzata tramite internet, strumento idoneo a permettere la trasmissione del messaggio ad una vastità di soggetti difficilmente determinabile. In queste ipotesi, secondo la Giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione (sent. 44980/2012), l’utilizzo di Internet è da considerarsi quale “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” e dunque un’eventuale condotta diffamatoria posta in essere attraverso tale strumento potrebbe essere astrattamente soggetta all’aggravante appena descritta.

Con una recentissima pronuncia, la stessa Corte di Cassazione (Cass. 24431/2015) ha meglio circoscritto il concetto di “mezzo di pubblicità” con riferimento al web, individuando nei social network (nel caso di specie Facebook) uno strumento in grado di raggiungere potenzialmente un numero indeterminato di persone; in questo senso, un commento diffamatorio divulgato tramite Facebook può essere idoneo ad integrare la violazione della norma di cui all’art. 595 del Codice Penale con l’applicazione dell’aggravante prevista dal terzo comma appena delineata. I giudici  sottolineano la caratteristica dell’elevata diffusione dei commenti che vengono lasciati su tali siti e proprio per tale ragione, ritengono dette informazioni aggravate come se fossero commesse a mezzo stampa.

È quindi utile riportare l’estratto della sopracitata sentenza  della Suprema Corte, da cui possiamo evincere in maniera chiara il suo attuale orientamento:

 “anche la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero  indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.
Identificata nei termini detti, la condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza, pertanto, la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone comunque apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dal terzo comma dell’art. 595 c.p.p..” (Cass. 24431/2015).

Il contesto ambientale e relazionale quale elemento di valutazione del carattere diffamatorio 

La commissione del predetto reato mediante l’impiego di tecnologie informatiche, se da un lato integra l’aggravante di cui al già citato terzo comma dell’art.595 c.p., dall’altro richiede anche un necessario contemperamento dettato dalla valutazione del contesto nel quale le parole o le frasi vengono pubblicate. Tale valutazione, che compete al giudice di merito, deve tenere in considerazione anzitutto il contesto ambientale e relazionale nel quale viene pubblicato il contenuto avente carattere diffamatorio, procedendo ad una contestualizzazione in ordine al significato rispetto al linguaggio comune, a prescindere dalle intenzioni del soggetto agente e dalle sensazioni che possono essere state recepite dalla persona offesa. La giurisprudenza infatti, specie con riferimento alla quantificazione del danno ha da sempre ritenuto necessaria tale valutazione ( Cass. 6062/1995).

Diffamazione e diritto di critica

Un rilevante problema che si pone soventemente è quindi quello di delineare il confine che separa il diritto alla critica dalla configurabilità del reato di diffamazione. La Costituzione, infatti, all’art. 21 garantisce a tutti i cittadini il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero nelle diverse forme, ma ciò deve avvenire sempre nel rispetto dell’onore e dell’altrui reputazione. Venendo meno tali presupposti è chiaro che i diritti di cui all’art. 21 Cost. troveranno come limite la qualificazione del reato in questione.  Il diritto di critica però, presenta dei confini molto ampi permettendo anche l’espressione di giudizi severi ed irriverenti purché però collegati con la veridicità del dato fattuale.

A tal proposito, di recente, la Suprema Corte, sezione V penale, con la sentenza n. 48553/2011 in un giudizio avente ad oggetto l’accusa di diffamazione mossa contro un giornalista, si è espressa stabilendo che il termine “parassita” può rientrare nei confini del diritto di critica, non essendo per quest’ultimo la verità elemento vincolante come invece lo è per il diritto di cronaca. I giudici nella pronuncia, evidenziano che “una opinione non è vera o falsa, ma vero o falso può essere il presupposto fattuale sul quale essa poggia”. Tuttavia affinché non si offenda la reputazione del diretto interessato, è necessario che l’espressione sopra riportata venga motivata con una serie di ragionamenti che la rendano quantomeno credibile e giustificata.

Pertanto è sempre opportuno prestare la massima attenzione prima di digitare sulla tastiera delle parole che, magari espresse in un momento d’ira,  potrebbero esporre l’autore ad importanti conseguenze, anche sotto il profilo legale.

Conclusioni

Come si è visto, anche una banale critica, espressa con un linguaggio ostile ed offensivo, può determinare una responsabilità penale dell’autore ed è per tale motivo che l’attenzione deve essere innanzitutto posta alle forme in cui ci si vuole esprimere, le quali devono rientrare prima di tutto nei normali canoni della buona educazione. Del resto, chiunque è (o dovrebbe essere)  padrone di sé stesso ed in grado di cogliere autonomamente il momento in cui si travalica il confine tra il diritto di critica e la diffamazione; è importante assumere la consapevolezza delle conseguenze che possono derivare da tali comportamenti, senza poi commettere l’errore di pensare di poter restare impuniti utilizzando dei nomi fittizi poiché il totale anonimato on line è sovente una chimera e tramite le varie “tracce” lasciate in rete le Forze dell’ordine possono riuscire, più o meno agevolmente, a individuare i responsabili degli illeciti.

Dott. Giuseppe Laganà

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