La persistente ed accentuata esposizione di un logo di una ditta di articoli sportivi, posto sul giubbetto di due commentatori sportivi, nel corso di una ripresa televisiva, induce un non controvertibile effetto promozionale. Tale “effetto” promozionale, secondo l’Autorità antitrust, competente in materia di applicazione del codice del consumo, è rivelatore di un sotteso “intento” promozionale, ciò in quanto le esigenze intrinseche alla configurazione della trasmissione dell’incontro sportivo non richiedevano – né altrimenti giustificavano – una così prolungata ed insistita esibizione del marchio.

(Consiglio Stato sezione VI, 11 marzo 2010, n. 1435)

 

Testo integrale della sentenza

[ omissis…]

FATTO

Con due distinti e connessi ricorsi di primo grado, riuniti dal Tar, era stato chiesto dalla società odierna appellante e dalla società Sky Italia SRL l’annullamento del provvedimento adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato n. 16097 (prot. n. 36124 del 31 ottobre 2006), adottato nell’Adunanza del 19 ottobre 2006 e di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguenziale.
In via principale le originarie ricorrenti sollecitavano un giudizio integralmente demolitorio del provvedimento sanzionatorio in oggetto; in via subordinata una verifica annullatoria incidente sulla quantificazione della sanzione ad esse applicata.
Il Tar del Lazio, riuniti i connessi ricorsi, li respingeva integralmente, confermando la valutazione dell’appellata amministrazione che aveva ravvisato nella condotta delle predette società una fattispecie di pubblicità occulta, e non ritenendo la sanzione applicata affetta da sproporzione od abnormità.
La originaria ricorrente di primo grado Adidas Italy SPA, rimasta soccombente, ha proposto un articolato appello sostanzialmente riproponendo le tematiche contenute nell’atto introduttivo del ricorso di primo grado e rivisitando in chiave critica l’iter motivazionale dell’appellata decisione.
In punto di fatto era accaduto che con richiesta di intervento del 20 marzo 2006 un consumatore aveva denunciato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato l’inserimento di una pubblicità asseritamente non trasparente all’interno della trasmissione in diretta della partita di calcio di serie A Juventus – Milan, in onda in data 12 marzo 2006 sul canale SKY SPORT 1: in particolare, due dei commentatori della partita (il giornalista Giorgio Porrà e l’ex calciatore del Milan Z. B.) avevano indossato un giubbetto sul quale – oltre al logo dell’emittente SKY SPORT – sarebbe stato riconoscibile il marchio “ADIDAS”.
SKY ed ADIDAS, avevano prodotto dinanzi all’Autorità i richiesti chiarimenti contestando il ricorrere di alcuna forma di “pubblicità occulta o non trasparente”: SKY si era limitata ad ordinare (e pagare) ad ADIDAS una serie di capi di abbigliamento “tecnico” successivamente posti a disposizione dei propri operatori (senza, peraltro che ricorresse in capo a questi ultimi alcun obbligo di usarli nel corso della trasmissione di eventi sportivi).
Non vi era stato, da parte di ADIDAS, alcun acquisto di presunti spazi pubblicitari (al contrario, l’anzidetta fornitura era stata pagata da SKY in favore di quest’ultima); il parere reso dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, aveva rappresentato la insussistenza di alcuna fattispecie di pubblicità ai sensi degli artt. 19 e 20 del Codice del Consumo.
Con il provvedimento censurato in primo grado l’AGCM aveva valutato il carattere “pubblicitario” della trasmissione in oggetto disponendo, in ragione della ritenuta violazione della disposizione di cui all’art. 23, comma 1, del Codice del Consumo, l’irrogazione della sanzione di 53.600,00 nei confronti di SKY e di 38.600,00 nei confronti di ADIDAS.
Entrambe le suindicate società erano insorte lamentando, nei loro distinti e connessi ricorsi, il vizio di eccesso di potere, sotto varii profili sintomatici, e quello di violazione di legge (artt. 19, comma 2, 202326 del D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206, legge n. 689/1981, artt. 3 e 97 della Costituzione):
nella incontestata inesistenza di un rapporto di committenza fra ADIDAS e SKY (comunque indimostrata, sotto il profilo financo indiziario) si richiamavano le argomentazioni con le quali l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni, nell’ambito del parere reso, aveva negato la configurabilità di un’ipotesi di pubblicità “occulta”, escludendo al contempo che la commisurazione sanzionatoria fosse sostenuta da una congrua valutazione della gravità e della durata della contestata violazione.
Detta tesi non è stata accolta dai primi Giudici: il nucleo essenziale della statuizione reiettiva resa dal Tar riposa nel convincimento che fosse stata acquisita la prova della circostanza che l’esibizione degli indumenti sportivi citati, da parte di due dei tre commentatori dell’evento sportivo, aveva avuto il solo scopo di veicolare la diffusione di un messaggio a carattere pubblicitario in favore della predetta marca di abbigliamento ed accessori sportivi.
Ha escluso il Tar, in particolare, che potessero deporre in senso contrario al giudizio di legittimità dell’operato dell’amministrazione l’assenza di un rapporto di committenza SKY/ADIDAS (in quanto, laddove tale rapporto sia assente, possono sovvenire, qualificati e dimostrati elementi presuntivi) e la mancata diffusione, ad opera di ADIDAS, di espliciti messaggi pubblicitari in concomitanza con la trasmissione dell’evento sportivo di che trattasi (da tale circostanza, al contrario, potendo argomentarsi la presenza di un ulteriore elemento valutativo asseverativo dell’intento pubblicitario sotteso all’esposizione del marchio nel corso della trasmissione stessa).
Gli elementi presuntivi a sostegno dell’intento pubblicitario, venivano rinvenuti dal Tar, (si riporta in proposito uno stralcio dell’iter motivazionale dell’appellata decisione) nella constatazione che “la richiamata trasmissione televisiva aveva proposto, con una tecnica di ripresa a campo lungo (“fissa”) la prolungata esposizione dei capi di abbigliamento indossati da due commentatori sportivi, sui quali il logo ADIDAS ha rivelato una immediata percepibilità ed un evidente risalto, (risultando visibile anche in ragione della combinazione cromatica -scritta bianca sul fondo blu dei giubbotti indossati dai sigg.ri P. e B. -e del posizionamento dello stesso sulla parte anteriore degli indumenti in questione).
L’esposizione del marchio era avvenuta nel quadro di una trasmissione a forte impatto di audience ( sia per la collocazione oraria dell’incontro di calcio – posticipo serale domenicale -, sia per il seguito presso la platea degli appassionati delle compagini che si affrontavano – Milan e Juventus -).
Tale persistente ed accentuata esposizione del logo, avuto riguardo alla contestuale presenza in video dei due commentatori che indossavano capi contrassegnati dalla scritta ADIDAS, ha determinato una protratta visualizzazione del predetto marchio di abbigliamento (notoriamente destinatario di un significativo appeal presso i consumatori di indumenti e materiale tecnico sportivi), inducendo un non controvertibile effetto promozionale la cui consistenza non poteva essere esclusa (in ragione delle riscontrate modalità di svolgimento della trasmissione televisiva) per il fatto che uno solo dei tre commentatori non indossasse capi della ADIDAS.
Tale “effetto” promozionale, era stato correttamente inteso dall’Autorità quale rivelatore di un sotteso “intento” promozionale atteso che le esigenze intrinseche alla configurazione della trasmissione dell’incontro di calcio non richiedevano – né altrimenti giustificavano – una così prolungata ed insistita esibizione del marchio: né la circostanza che ADIDAS avesse fornito capi di abbigliamento tecnico agli operatori SKY poteva ritenersi idoneamente giustificativa alla reiterata esposizione del relativo logo, che nel corso della trasmissione risulta essere stata proposta all’attenzione degli spettatori alla luce delle modalità televisive di ripresa dei cronisti che indossavano gli indumenti sui quali quest’ultimo era visibilmente raffigurato.”.
In punto di quantificazione della sanzione, del pari, il Tar ha richiamato le disposizioni applicabili ratione temporis alla fattispecie ( comma 7 dell’art. 26 del D.Lgs. 206/2005 ora sostituito dall’art. 1 del D.Lgs. 146/2007 ed art. 11 della legge 24 novembre 1981 n. 689 applicabile in virtù del richiamo di cui al comma 12 del citato art. 26 del D.Lgs. 206/2005) ed ha escluso la sussistenza di vizi motivazionali, ovvero della lamentata sproporzione rispetto alla modesta gravità delle censurate condotte (l’amministrazione aveva valutato sia la gravità del fatto, che la durata della messa in onda della trasmissione, protrattasi per un arco temporale superiore a tre mesi).
Tutti i detti capi della sentenza confermativi della sanzione sono stati appellati dall’originaria ricorrente Adidas che ne ha contestato la fondatezza ribadendo le prospettazioni sottese al ricorso di primo grado.
Nel ricorso in appello, dopo una articolata e diffusa premessa in fatto sugli accadimenti che avevano indotto l’amministrazione procedente, disattendendo il parere reso dall’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni, ad infliggere ad Adidas e Sky la suindicata sanzione (escludendo la corresponsabilità dei commentatori che avevano indossato i giubbotti), l’appellante ha criticato con tre distinti ed articolati motivi di impugnazione l’approdo cui erano giunti i primi Giudici.
Esclusa infatti l’esistenza di un rapporto di committenza fra ADIDAS e SKY (il che, secondo il testo dell’art. 20 co.I del d.lvo n. 206/2005, c.d. “codice del consumo” escludeva potersi ricorrere al concetto di “pubblicità”), si era tentato da parte dell’appellata amministrazione di ricorrere allo strumento probatorio indiretto ex art. 2729 CC.
Nel caso di specie tuttavia, gli indizi della sussistenza di un accordo di occultamento non erano né plurimi, né gravi, né precisi, né concordanti.
L’unico dato indiziario – e tale unicità sarebbe stata sufficiente, ove colta dai primi Giudici a smentire l’asserto dell’amministrazione procedente – riposava nella “tecnica di ripresa a campo lungo (“fissa”) con prolungata esposizione dei capi di abbigliamento indossati da due commentatori sportivi, sui quali il logo ADIDAS ha rivelato una immediata percepibilità”.
Tale “unico” indizio non era né grave (l’altro commentatore non indossava il giubbotto con il marchio adidas); né preciso (la tecnica di ripresa era quella ordinaria) né concordante (sol che si consideri che il parere dell’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni era stato reso in senso del tutto difforme dalle conclusioni cui era poi approdata l’amministrazione procedente.
L’atto era privo di supporto motivazionale, avendo disatteso immotivatamente detto obbligatorio parere.
La contraddizione evidente riposava peraltro nel fatto, che secondo la costruzione avallata dai primi Giudici i commentatori – non obbligati ad indossare alcunché – erano andati esenti da sanzione: essi venivano pertanto immotivatamente considerati “inconsapevoli pedine” dell’illecito
La sanzione era peraltro del tutto sproporzionata.
Era stato di fatto disposto, quindi, l’inversione dell’onus probandi non traendo poi le dovute conseguenze dalla circostanza che l’Adidas non aveva, nella trasmissione predetta, commissionato alcun messaggio pubblicitario.
La sentenza appariva poi contraddittoria laddove non aveva chiarito in base a quale schiacciante supporto probatorio si era pervenuti alla condanna di una società – qual l’odierna appellante – che aveva unicamente fornito a Sky dei prodotti richiestile, che a loro volta erano stati pagati.
Parte appellante ha poi depositato una articolata memoria conclusiva, volta a ribadire e specificare le doglianze esposte nel ricorso in appello: l’unico “indizio” su cui si fondava il fragile costrutto a carico dell’appellante riposava in una circostanza (la ripresa in campo lungo) costituiva dato del tutto neutro e collidente con numerose emergenze processuali.
L’asserito “impatto pervasivo” era del tutto insussistente, sol che si ponesse mente locale alla circostanza che la trasmissione in oggetto era visibile unicamente da una ristretta platea di abbonati.
L’ amministrazione resistente in primo grado si è costituita depositando una memoria con le quali ha chiesto respingersi, perché infondato, il ricorso avverso le statuizioni della sentenza confermative del giudizio di sussistenza di una ipotesi di pubblicità occulta ascrivibile alla società appellante.
Sebbene mancasse la prova diretta del rapporto di committenza la pregressa e continuativa sussistenza di rapporti commerciali tra Adidas e Sky costituiva dato che comprovava l’esattezza della ipotesi sostenuta dal’amministrazione d’accusa.
La circostanza che nel corso della trasmissione in oggetto non era stato diffuso alcun messaggio pubblicitario della Adidas non valeva ad escludere la sussistenza di una forma di pubblicità occulta.

DIRITTO

La sentenza deve essere integralmente confermata previa declaratoria di infondatezza dell’appello.
Il ricorso in appello censura la sentenza in epigrafe – come si è dianzi evidenziato – seguendo una pluralità di distinti angoli prospettici.
In primo luogo ci si duole che la stessa, sotto il profilo sostanziale abbia ritenuto non viziata l’azione amministrativa spiegata dall’amministrazione, non traendo le logiche conseguenze dalla accertata assenza di alcun rapporto di committenza.
In secondo luogo, che a fronte di tale lacuna non abbia preso atto dell’assenza di un plurimo compendio indiziante dimostrativo della sussistenza di intento pubblicitario pur in carenza del primo fondamentale elemento. A tal ultimo proposito si valorizza il parere reso dall’AGCOM sostanzialmente contrario alla possibilità di sanzionare la condotta posta in essere da parte appellante.
Sotto altro profilo, evidenzia la debolezza intrinseca dell’accusa, sotto il profilo logico, laddove essa aveva ritenuto che il “veicolo” pubblicitario (id est: i due conduttori della trasmissione) fosse inconsapevole della forma di pubblicità prescelta per pubblicizzare il prodotto, tanto da non essere sanzionato.
Da ultimo, si censura una sostanziale omissione valutativa con riguardo alla elevata quantificazione posto che la condotta era priva di gravità alcuna.
Appare evidente che la compiuta disamina del primo gruppo di doglianze assuma rilievo e portata preliminare, investendo, a monte, i presupposti dell’azione amministrativa (il corretto esplicarsi dell’attività istruttoria, cioè).
Il ricorso in appello è con riguardo a tale aspetto infondato.
Deve innanzitutto essere dichiarata la infondatezza della doglianza che poggia in via autonoma sulla circostanza che il parere reso dall’AGCOM fosse sostanzialmente contrario alla possibilità di sanzionare la condotta posta in essere da parte appellante: trattasi appunto di parere, reso nell’ambito di una ordinaria dialettica tra due qualificatissimi organi tecnici, ma non v’è dubbio che pertenendo all’AGCM la responsabilità dell’adozione dell’atto (si veda sul punto la condivisibile ricostruzione esegetica di cui alla decisione del Consiglio di stato , sez. VI, 08 febbraio 2008, n. 420) quest’ultimo non può ritenersi viziato sol perché si sia discostato dalle pur approfondite deduzioni dell’AGCM.
Per altro verso – ma sul tema si tornerà più approfonditamente di qui a poco – neppure può trovare accoglimento la doglianza che, muovendo dalla difformità sussistente tra le valutazioni espresse dai sopracitati organi tecnici, giunge ad affermare che, per tal ragione, il compendio indiziario posto a base della delibera impugnata non sarebbe “univoco”.
La doglianza muove da un equivoco di fondo che merita immediata smentita.
Ciò che il Giudice è chiamato a valutare, e prima di ciò, quel che l’art. 2729 CC pretende sia “univoco” non è, ovviamente, il convincimento che sul compendio posto a base dell’atto abbiano espresso più – seppur qualificatissimi – organi tecnici ma, ovviamente, il dato oggettivo che a propria volta ha costituito oggetto di valutazione.
La circostanza che più organi tecnici abbiano espresso valutazioni difformi può indurre ad affermare – ma unicamente sotto il profilo descrittivo – che un dato elemento non sia “pacifico”.
Non certo che un dato indiziario non sia univoco, circostanza quest’ultima che può desumersi unicamente dall’analisi oggettiva degli elementi che ad esso sono sottesi.
Ché altrimenti argomentando, per ipotesi, basterebbe una divergente valutazione da parte di uno degli organi chiamati ad esprimere valutazioni su tale compendio, per smentire sempre e comunque che esso possieda il requisito della organicità/univocità.
È fisiologico che uno di essi possa manifestare una opinione divergente rispetto a quella di altro organo: non per questo l’oggetto del vaglio diviene per ciò solo “non univoco”: al più potrebbe affermarsi – il che costituisce circostanza tutt’affatto diversa, ed oggetto dell’odierno vaglio giudiziale – che non può dirsi “pacifico” che il quadro indiziario sia univoco: non già (come afferma la difesa dell’appellante, con un salto logico non condivisibile) che per ciò solo il quadro sottostante non possa dirsi univoco.
Sotto altro profilo, in una ottica di semplificazione tesa a sgombrare il campo da censure palesemente infondate costituisce errore prospettico non irrilevante l’affermazione contenuta nel ricorso in appello secondo cui la sanzionabilità della condotta in oggetto postulerebbe il pieno riscontro probatorio della sussistenza del dolo in capo ai protagonisti della condotta, costituendo invece jus receptum che per la punibilità di condotte punite con sanzione amministrativa (come del resto per le condotte penalmente rilevanti punite a titolo di contravvenzione) ” salvo eccezioni normativamente previste è indifferente che sussista dolo o colpa purché l’uno o l’altro elemento psicologico vi sia” (fortunata espressione, quest’ultima, pienamente recepita dalla giurisprudenza, e tesa a ricondurre la sanzione extracivile nell’alveo della c.d. “responsabilità colpevole” costituzionalmente disciplinata ex art. 27 della Carta Costituzionale, laddove si afferma la necessaria “personalità” della responsabilità (ex multis, si veda Cassazione civile , sez. III, 08 maggio 2001, n. 6383).
Nel merito, come è noto, la fattispecie della “pubblicità occulta” (già prevista dall’art. 4, comma 1, del D.Lgs n. 74/1992) è ora disciplinata dal comma 1 dell’art. 23 del D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (poi sostituito dall’art. 1 del D.Lgs. 2 agosto 2007 n. 146), per il quale “la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale..”.
La disposizione di cui all’art. 20 del medesimo testo di legge, nella parte di interesse, definisce i concetti di pubblicità e di pubblicità ingannevole (“qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di opere o di servizi;
b) per pubblicità ingannevole: qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea ledere un concorrente;”)e quello di operatore pubblicitario(” il committente del messaggio pubblicitario ed il suo autore, nonché, nel caso in cui non consenta all’identificazione di costoro, il proprietario del mezzo con cui il messaggio pubblicitario è diffuso ovvero il responsabile della programmazione radiofonica o televisiva.”).
Che nel caso in questione non vi fosse – e comunque, il che è equivalente, non fosse stato provato – alcun rapporto di committenza è pacifico.
La stessa parte appellante, tuttavia, riconosce la possibilità di provare la sussistenza di un fatto (materiale) quale la realizzazione di una forma di pubblicità occulta, ricorrendo ad indici presuntivi.
E d’altro canto, trattandosi di condotta plurioffensiva (il Collegio condivide l’impostazione dottrinaria e giurisprudenziale secondo la quale il principio che si intende salvaguardare ha un valore in sé, ed è diretto a tutelare anche il corretto svolgersi del mercato, a garanzia non solo dei consumatori ma anche degli operatori economici concorrenti), e non essendo nella disponibilità di alcuna delle “parti lese” (né tampoco, di regola, dell’organismo deputato ad accertare e sanzionare tale condotta) la prova del rapporto di committenza (che, ovviamente, le parti hanno ogni interesse ad occultare) ancorare la sussistenza dell’illecito alla piena dimostrazione probatoria del sussistere di tale rapporto significherebbe postulare la pratica inapplicabilità della disposizione in esame.
Sul piano teorico, peraltro, ciò configurerebbe inammissibile aporia del sistema posto che la normativa richiamata, in particolare, non costruisce la pubblicità ingannevole e quella occulta come due entità indipendenti e distinte fra di loro, ma configura chiaramente la seconda come una forma precipua della prima, della quale ripete, addirittura amplificandoli, i caratteri di possibile pregiudizio per il mercato dei consumatori sostanzia dosi la medesima in una condotta assai insidiosa, riposante in un’informazione all’apparenza neutrale e disinteressata.
Ciò premesso ritiene il Collegio che le pur articolate doglianze contenute nel ricorso in appello non scalfiscano l’impianto motivazionale dell’appellata decisione.
In particolare sussiste un elemento indiziario – di portata consistente anche isolatamente considerato – riposante nella insistita ripresa in campo lungo dei giubbotti per cui è causa, in relazione al quale appare pienamente provato, ad avviso del Collegio, l’effetto di pubblicizzazione del marchio in via occulta.
Detto elemento, poi, non è neppure isolato (sempre sotto il profilo indiziario).
Si deve considerare infatti, da un canto, la qualità dei soggetti sanzionati dall’Autorità (una qualificata emittente televisiva ed una azienda produttrice di abbigliamento sportivo leader sul mercato e committente a propria volta, legittimamente, di pubblicità su varie emittenti ed organi di stampa).
Sotto altro profilo, si deve tenere conto della piena continenza tra la tipologia di trasmissione messa in onda (interviste e commenti nel corso ed a margine di un evento sportivo tra i maggiormente seguiti dell’anno) ed il marchio “esposto” (riferibile ad una nota casa produttrice proprio di abbigliamento sportivo), oltre che la tipologia del bene di consumo sul quale il marchio in questione era apposto.
Inoltre non va sottaciuta la contemporanea presenza nei capi di abbigliamento indossati dai due conduttori del marchio dell’emittente televisiva e di quello della Adidas, il che rende logico un processo di accostamento ed assimilazione dei medesimi in capo al telespettatore.
Sussiste pertanto sia il quadro indiziario plurimo, sia la congruenza, conducenza e non equivocità del medesimo.
A tal proposito, la pluralità del quadro indiziario, è bene precisare, non deve essere intesa nel senso preteso dalla difesa (e non rispondente alla conforme interpretazione civilistica) di pluralità distinta di fatti autonomi isolatamente dimostrativi (elemento, quest’ultimo, che trasmoda il concetto di consistenza indiziaria per ridondare in quello di piena prova).
Sul punto, non può non evidenziarsi che il concetto di dato indiziario enucleato dalla giurisprudenza civilistica di legittimità, appare del tutto distonico (e assai meno rigoroso) rispetto a quello prospettato da parte appellante, ammettendo il pieno ricorso alla c.d. “prova logica”, essendosi condivisibilmente affermato, sin da tempo risalente, che “in tema di presunzioni semplici – le quali vanno distinte sia dalla fictio iuris che dalle presunzioni legali (assolute o relative) – il requisito della concordanza costituisce un elemento non essenziale ma solo eventuale del procedimento logico da cui consegue la presunzione (semplice), dovendo esso riferirsi all’ipotesi di una pluralità di fatti noti utilizzati dal giudice per risalire al fatto ignorato e potendo la presunzione stessa fondarsi anche su di un solo indizio, purché avente caratteristiche di gravità e precisione. L’esistenza di tali caratteristiche, poiché la legge affida la fonte delle presunzioni semplici alla prudenza del giudice, non abbisogna di particolare dimostrazione e deve essere ritenuta in re ipsa, salva la prova dell’illogicità o dell’illegittimità della presunzione formulata dallo stesso giudice. “(Cassazione civile , sez. lav., 04 febbraio 1993, n. 1377)
A quanto sul punto osservato esattamente dal Tar (pagg 23/25 dell’appellata decisione) relativamente alla qualità delle riprese, la prolungata esibizione del marchio, il risalto del logo, possono aggiungersi soltanto alcune considerazioni.
La critica contenuta nell’atto di impugnazione, appare in realtà dimensionata (ed in tal caso potrebbe non disconoscersene la plausibilità) sulla affatto diversa evenienza in cui la forma di pubblicità che si assume occulta fosse soggettivamente ascrivibile a soggetti estranei all’ambiente, e “casuale”.
In tali termini infatti, la difesa di parte appellante sollecita in via retorica la risposta ad un quesito in realtà distonico rispetto alle resultanze di causa.
In sintesi, si chiede la difesa, quale “responsabilità” potrebbe essere ascrivibile ad un produttore di un bene di consumo, laddove taluno di tali beni sia regolarmente acquistato da altro operatore commerciale che, poi, a propria volta, lo “esibisca” nel corso di una trasmissione?
Tale prospettazione – le cui ultime conseguenze logiche sarebbero quelle per cui, a tutto concedere, la responsabilità di tale condotta sarebbe unicamente ascrivibile all’emittente televisiva, e peraltro a titolo di negligenza – sconta un vizio endemico.
Innanzitutto non risponde all’obiezione contraria (che potrebbe così sintetizzarsi: per quale interesse ed a qual fine, se non pubblicitario in favor del produttore di un determinato bene di consumo, l’impresa titolare del “veicolo pubblicitario” dovrebbe esporre un marchio al predetto produttore appartenente? E ciò tantopiù, laddove quest’ultimo sia usualmente un committente pubblicitario della impresa televisiva?).
Quale autolesionistico intento dovrebbe guidare l’emittente medesima, che giungerebbe al punto di esporre gratuitamente ( e per di più pagando la relativa fornitura) un marchio appartenente ad una azienda che, usualmente, è una committente pubblicitaria dell’emittente stessa?
In secondo luogo ipotizza una consistenza indiziaria “superior” che, in carenza dell’unico dato costituente “prova regina” (id est: il contratto di committenza) appare di regola irraggiungibile.
Infine, giunge a dare risalto, in senso contrario alla ipotesi perseguita dall’AGCM a circostanze ( la mancata esplicita diffusione di messaggi pubblicitari Adidas, nel corso della predetta trasmissione, ovvero la circostanza che soltanto due dei tre commentatori indossassero le giacche) del tutto neutre rispetto alla ipotesi contestata, non rivestenti né sotto il profilo logico, che oggettivo carattere esimente e che semmai, ove realizzate, avrebbero viepiù connotato di gravità la condotta spiegata.
Le doglianze incidenti sull’an dell’applicazione della sanzione, pertanto devono essere respinte, anche come si è dianzi precisato, con riguardo al profilo della “svalutazione” del parere tecnico fornito dall’AGCOM.
Eguale sorte seguono le censure attingenti il profilo della quantificazione della sanzione.
La statuizione impugnata appare già prima facie ben equilibrata e motivata, laddove, è appena il caso di rammentarlo, ha applicato all’odierna appellante una sanzione di misura assai più modesta rispetto a quella applicata alla originaria ricorrente di primo grado non appellante SKY in considerazione dell’apporto fattuale di quest’ultima e della recidiva a questa ascrivibile.
Ciò basterebbe a respingere le censure fondate sull’asserita sproporzione della sanzione.
In più deve aggiungersi che sono certamente inaccoglibili le doglianze fondate sulla asserita non pervasività della condotta in relazione al bacino d’utenza dell’emittente (satellitare a pagamento) atteso che la quantificazione della sanzione non può non tenere conto del dato relativo all’impatto della condotta medesima sui soggetti che da questa erano raggiungibili: l’argomento utilizzato da parte appellante condurrebbe ad applicare modeste sanzioni anche a condotte gravi, ove realizzate da soggetti in grado di raggiungere una platea modesta di consumatori, travalicando elementi quali la risonanza dell’evento (ed altresì obliando, sotto il profilo oggettivo, la notoria circostanza che, in quanto trasmesse da locali pubblici, circoli, bar, etc, le trasmissioni satellitari sono ormai accessibili ad un numero di telespettatori ben superiore a quello degli effettivi abbonati, tanto più ove l’evento trasmesso sia di notevole importanza).
Sul punto, e conclusivamente, deve rammentarsi che, secondo quanto stabilito dall’art. 11 della legge 24 novembre 1981 n. 689 (applicabile in virtù del richiamo di cui al comma 12 del citato art. 26 del D.Lgs. 206/2005), “nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche.
La quantificazione della sanzione appare equilibrata ed immune da vizi, – nei limiti ovviamente del sindacato giurisdizionale “debole” cui essa deve essere sottoposta”, anche laddove ha tenuto conto che le riprese in oggetto (trattandosi di evento di grande risalto) furono successivamente messe in onda, anche in via di sintesi, per un torno di tempo consistente.
In conclusione la appellata decisione resiste alle censure formulate nel ricorso in appello e merita integrale conferma.
Le spese processuali seguono la soccombenza ed al pagamento delle medesime deve essere condannata l’appellante, in misura che appare equo quantificare in 3000, oltre Iva e CPA come per legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello in epigrafe lo respinge e per l’effetto conferma integralmente l’appellata sentenza.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese del giudizio nella misura di 3000 oltre Iva e CPA.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 febbraio 2010 con l’intervento dei Signori:

Giovanni Ruoppolo, Presidente
Luciano Barra Caracciolo, Consigliere
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Domenico Cafini, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 11 MARZO 2010.

 

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