Dallo scorso 6 gennaio non si fa altro che parlare dell’assalto degli estremisti trumpiani al Congresso degli Stati Uniti. Le immagini dell’assedio a Capitol Hill hanno fatto il giro del mondo, mostrando la vulnerabilità delle istituzioni statunitensi, sorprendendo e impressionando molti. Addirittura, il Congresso ha approvato per la seconda volta la procedura di impeachment nei confronti del presidente uscente, segnando così un triste primato nella storia del paese.

Ma non solo quello che è avvenuto all’interno – letteralmente – delle istituzioni è stato al centro dell’attenzione: ad occupare la scena, infatti, sono state anche le chiusure e le sospensioni degli account social del presidente Trump.

In prima fila Facebook, che, per mezzo del profilo del CEO Zuckerberg, si è giustificata affermando che “riteniamo che i rischi di permettere al Presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio durante questo periodo siano troppo grandi”. A seguire Twitter, che ha emanato una nota col quale ha affermato che “dopo aver revisionato i più recenti tweet di @realDonaldTrump e averli contestualizzati, analizzando come vengono recepiti e interpretati su Twitter e fuori, abbiamo deciso di sospendere permanentemente l’account per evitare ulteriori rischi”. Analoghe decisioni, inoltre, sono state prese da Twitch (Amazon) e Snapchat.

A questo punto, però, viene da chiedersi: quali aspetti giuridici potrebbero essere implicati? Si tratta di una questione chiusa o potrebbero esserci ulteriori “colpi di coda”?

Le condizioni d’uso

Innanzitutto, va premesso che, nel momento in cui si iscrive a un social, ogni utente deve accettarne le Condizioni d’uso. Si tratta di un vero e proprio contratto – anche se predisposto unilateralmente dall’azienda – che disciplina le modalità con cui gli utenti (i destinatari dei servizi) possono usufruirne. È qui che sono individuate le condotte lecite e quelle vietate, che potranno dar luogo a sanzioni, fra cui, appunto, la sospensione o il blocco degli account. Per esempio, gli “Standard della community” di Facebook, prevedono che “Provvederemo a rimuovere i contenuti, disabilitare gli account e collaborare con le forze dell’ordine qualora ritenessimo reale l’eventualità di seri rischi di danno fisico o minacce dirette alla sicurezza pubblica”.

La responsabilità del provider

Inoltre, si deve tener conto della possibile responsabilità del prestatore dei servizi online per fatti correlati ai contenuti della piattaforma. In Italia, la questione è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza a partire dal D. lgs. 70 del 2003 (Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico): si è affermato, dunque, che il prestatore del servizio, pur non avendo un obbligo di sorveglianza attiva, una volta a conoscenza dei contenuti illeciti veicolati da terzi attraverso il servizio gestito, ha l’obbligo di rimuoverli e di impedire ulteriori violazioni (Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 21-02-2019) 19-03-2019, n. 7708).

Gli interessi in gioco

La chiusura di un account social, dunque, può dipendere dalla violazione del contratto concluso al momento dell’iscrizione fra utente e provider e dall’obbligo dello stesso di rendere inaccessibili contenuti illeciti di cui venga a conoscenza. Ma quali sono gli interessi in gioco?

In primo luogo, secondo alcuni, la posizione monopolistica sul mercato internazionale delle aziende private che gestiscono i principali social network rischia di minare alla libertà di parola e di manifestazione del pensiero (art. 21 Costituzione) e, in definitiva, di ostacolare il corretto esplicarsi dei processi democratici.

Inoltre, come messo in evidenza anche da una pronuncia italiana, la chiusura di un account su una piattaforma online potrebbe danneggiare l’attività del soggetto che viene sanzionato. È quanto statuito dal Tribunale di Pordenone, con sentenza del 10 dicembre 2018, n. 2139: il caso riguardava la cancellazione dell’account di un utente che, postando un video tratto dal profilo Instagram di un tennista e riguardante un incontro del Torneo di Wimbledon del 2018, poneva in essere – a detta di Facebook – reiterate violazione contrattuali e normative (in particolare, relative alla proprietà intellettuale). Il giudice, accertato che la condotta non rientrava fra quelle vietate dalle Condizioni d’uso, ordinava a Facebook di ripristinare il profilo personale “in quanto “il “congelamento” di una pagina Facebook determina l’assoluta perdita di interesse degli utenti nei confronti della stessa e, di conseguenza la vanificazione di tutto il tempo speso e l’attività svolta dal ricorrente per la sua implementazione, con l’irrimediabile perdita dei followers acquisiti”.

Profili istituzionali e manifestazione del dissenso

Un’altra ipotesi da considerare, poi, è quella che si verifica nel caso in cui la pagina o un profilo di chi esercita funzioni pubbliche interdica a determinati utenti di interagire, bloccando loro il profilo. Per ironia della sorte, la giurisprudenza statunitense ha avuto modo di pronunciarsi sul tema proprio con riguardo all’abitudine del presidente Trump di bloccare i detrattori sui suoi canali social.

Nel caso Knight First Amendment Institute, et al v. Donald J. Trump, et al, infatti, la United States Court of Appeals for the Second Circuit ha dapprima ribadito il principio per cui negli Stati Uniti, se un account è qualificabile come forum – pubblico o meno che sia – il Primo Emendamento della Costituzione preclude la possibilità di discriminazioni in base al punto di vista espresso.

In secondo luogo, la Corte ha fatto rientrare il profilo Twitter di Trump in tale categoria, essendo presenti e attive tutte le funzioni interattive (risposta, retweet, like) offerte dal social.

Da ultimo, i giudici hanno sottolineato che aver interdetto l’accesso al profilo ostacolava effettivamente la libertà d’espressione, dal momento che: “il Presidente Trump è solo uno dei riceventi dei messaggi che il ricorrente ha provato a comunicare. Mentre non gli è sicuramente richiesto di ascoltare, una volta attivate le funzionalità interattive del suo account pubblico ad un ampio pubblico, egli non ha il diritto di censurare utenti selezionati perché esprimono delle opinioni dal quale dissente.

Sulla stessa scia, poi, si colloca anche la successiva decisione della United Stated Court of Appeals for the fourth circuit, Brian Davis v. Phyllis Randall, in cui i giudici, in particolare, hanno affrontato la questione della natura privata degli account social, giungendo a chiedersi “perché, per esempio, il Primo Emendamento dovrebbe consentire ad un comune di discriminare in base al punto di vista mentre gestisce una libreria pubblica in un edificio in affitto, ma non se lo spazio è di proprietà del comune stesso?” da cui hanno tratto, com’è intuibile, la conclusione che la natura privata del profilo non ha rilevanza.

Conclusioni

Non serve sottolineare quanto i social costituiscano una componente fondamentale della nostra società, essendo ormai diventati per molti una delle principali fonti di informazione, oltre che di guadagno economico. Come si è visto sopra, dunque, gli interessi in ballo sono molto rilevanti e diversificati e impongono di usare le piattaforme online con notevole attenzione.

Redazione Diritto dell’Informatica

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