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Nell’era dell’amministrazione digitale sempre un maggior numero di procedimenti amministrativi viene gestito tramite processi automatizzati. L’art. 41 del Codice dell’Amministrazione Digitale sancisce l’introduzione, nel procedimento amministrativo, di modelli decisionali e forme gestionali innovative, prevedendo la possibilità di utilizzare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per assumere le decisioni.

L’obiettivo dell’e-government è, quindi, quello di migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini, garantendo il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità, come previsto dall’art. 97 della Costituzione. In particolare, l’utilità dell’automazione è evidente in tutti quei procedimenti riguardanti procedure seriali o standardizzate che hanno ad oggetto l’elaborazione di ingenti quantità di istanze. Caso esemplare è quello offerto dal MIUR, che, per l’espletamento dell’attività di riorganizzazione del corpo docente sul territorio nazionale e la relativa elaborazione della graduatoria, ha fatto ricorso ad una procedura digitale.

Ogni procedura si basa su una logica standardizzata, che segue la regola dell’”If…then..”, a cui non si potrebbe ricorrere in caso di più possibilità di scelta. Ma, cosa accadrebbe se le conclusioni contenute nel provvedimento amministrativo, ottenute ricorrendo al sistema informatico, fossero palesemente contrarie alle informazioni di partenza ed agli schemi logici adottati?

Per poter dare una risposta a questa domanda, occorre, innanzitutto, interrogarsi sul valore giuridico attribuibile all’algoritmo.

L’atto amministrativo informatico

Dal 2015 ad oggi, diversi Tribunali amministrativi hanno esaminato attentamente i sistemi informatici adottati dalla pubblica amministrazione con l’obiettivo di individuarne una corretta qualificazione. Il diverso impiego di questi strumenti ha dato vita a due differenti tipi di atto informato: uno a “forma elettronica” ed un altro ad “elaborazione elettronica”.

Nell’atto a forma elettronica, il procedimento amministrativo si svolge tradizionalmente ed il software viene impiegato solamente per la sua redazione. In altre parole, lo strumento informatico, generalmente un programma di editing, si occupa solamente della traduzione in formato digitale della decisione adottata mediante un procedimento amministrativo ordinario.

Il secondo tipo di atto – oggetto dell’odierna trattazione-, invece, affida l’elaborazione della decisione amministrativa direttamente allo strumento informatico. Il procedimento, allora, viene gestito interamente dal software, che, attraverso uno schema logico di ragionamento memorizzato, elabora gli input trasmessi e produce i risultati. La decisione ottenuta assume direttamente la natura di provvedimento e si pone a conclusione del procedimento amministrativo. L’intervento umano, così, diventa assolutamente superfluo, tanto da considerare le esigenze di economicità dell’attività amministrazione completamente soddisfatte.

Nonostante la precisione, in alcuni casi perfezione, raggiungibile dal software, secondo un orientamento giurisprudenziale, maggiormente diffuso in passato, le procedure informatiche non potevano “mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere”.

Se il primo tipo veniva automaticamente considerato un atto amministrativo in senso stretto, lo stesso non poteva dirsi per quello ad elaborazione elettronica. Seconda questa giurisprudenza, alle procedure informatiche poteva essere riconosciuto solamente un ruolo strumentale, poiché la modalità di assunzione della volontà amministrativa impediva completamente l’attribuzione del valore di atto amministrativo. Presupposto di base di questa conclusione era la necessaria valutazione svolta da un funzionario umano. Non solo. A sostegno di questa tesi, si riteneva che il software fosse in contrasto con alcuni principi fondamentali del procedimento amministrativo. Tra le più importanti criticità emergeva l’incompatibilità con la discrezionalità amministrativa, le difficoltà di conoscibilità del meccanismo, quelle relative al principio di trasparenza e al diritto di accesso. Secondo questa tesi, il linguaggio tecnico di programmazione posto alla base del software risultava incomprensibile a chiunque intendesse conoscerlo e, in secondo luogo, l’impiego di un software prodotto da terzi, ovvero da un privato, faceva sì che lo stesso venisse coinvolto nel procedimento amministrativo.

Di segno totalmente opposto appariva invece quella giurisprudenza favorevole all’assimilazione del software all’atto amministrativo informatico. Essa si basava sull’utilità delle procedure automatizzate, sui vantaggi derivanti in termini di riduzione delle tempistiche e sulle garanzie di imparzialità.

Il fondamento giuridico di tale tesi era ed è rinvenibile nell’art. 22 lett. d) della legge 241/1990. Questa disposizione riconosce “cittadinanza amministrativa” all’atto ad elaborazione elettronica ricorrendo ad una definizione più ampia del documento amministrativo. Per l’art. 22 è un atto amministrativo “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuta dalla pubblica amministrazione, concernente l’attività di interesse pubblico”. Di conseguenza, l’algoritmo, quale sequenza di operazioni, può sostituire l’ordinario procedimento amministrativo. A tal riguardo viene completamente svuotato della propria rilevanza il riferimento alla provenienza privatistica del software, elaborato da un privato. Ancor prima della giurisprudenza è l’art. 22, di cui sopra, a svincolare il valore giuridico dell’atto ad elaborazione elettronica dalla natura privatistica dell’elaboratore. Il software, se detenuto ed utilizzato dalla pubblica amministrazione, entra nel novero dei cosiddetti atti endoprocendimentali ed in quanto tale può provenire dal privato, senza minare la definizione di atto amministrativo.  È infatti nel software che si estrinseca la volontà della pubblica amministrazione, la quale definisce lo schema logico di ragionamento, trasformato poi dall’elaboratore privato. In tal modo si supera completamente l’egemonia dell’uomo nel procedimento amministrativo e il software diventa il luogo dove esercitare il potere decisionale dell’amministrazione.

Il software è un atto giuridico

Il Consiglio di Stato ha posto fine al dibattito con la sentenza n. 2270 dell’8 aprile 2019. In essa è stato sancito un principio cardine dell’e-government: il software e l’algoritmo, posto alla sua base, hanno il valore giuridico di un atto amministrativo. Con questa decisione sono stati superati gli ostacoli individuati dalla giurisprudenza contraria alla definizione del software quale atto amministrativo e sono state fornite precisazioni, che permetteranno un utilizzo più consapevole delle tecnologie nella pubblica amministrazione.

Il ricorso al massimo organo della giustizia amministrativa origina dall’impugnazione, da parte dei partecipanti ad un concorso pubblico, della sentenza emessa dal TAR del Lazio, il quale aveva stabilito la legittimità del procedimento amministrativo relativo all’assegnazione delle sedi di servizio attraverso l’utilizzo di un algoritmo che, di fatto, non aveva tenuto conto del posizionamento dei candidati in graduatoria e del quale non era possibile conoscere le modalità di funzionamento.

Confermando la giurisprudenza favorevole all’assimilazione, che richiamava l’art. 22 LPA, il Consiglio di Stato ha affermato che la regola tecnica posta alla base di tutti i procedimenti robotizzati è una regola amministrativa generale. Questa regola è definita dalla pubblica amministrazione e poi successivamente tradotta, quale schema di ragionamento, in termini matematici nell’elaborazione del software.

Tuttavia, la declinazione di questa regola in termini tecnici non esula dal rispetto dei principi generali del diritto amministrativo. Il primo chiarimento fornito attiene alla discrezionalità. Secondo i giudici di Palazzo Spada, dal momento che il software non può essere dotato di discrezionalità amministrativa, essa dovrà essere rintracciata solamente nel momento di elaborazione dello strumento digitale. Di conseguenza, spetterà all’amministrazione svolgere un ruolo di mediazione e di intermediazione degli interessi mediante test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell’algoritmo.

Riconosciuta la natura giuridica di atto amministrativo e rinvenuta la discrezionalità della pubblica amministrazione, un secondo interessante punto della sentenza in questione riguarda il sindacato del giudice amministrativo. Anche il sistema informatico, quale modalità di esercizio del potere amministrativo, deve essere sottoposto al sindacato dell’autorità giudiziaria. La valutazione posta in essere dal giudice riguarderà la legittimità della decisione e la correttezza del processo informatico in tutte le sue componenti: dalla sua costruzione, all’inserimento dei dati, alla loro validità ed alla loro gestione. Affinché ciò avvenga, è necessario che l’algoritmo sia “conoscibile”.

La conoscibilità dell’algoritmo

La conoscibilità del meccanismo con cui si concretizza la decisione robotizzata risponde alla necessità di soddisfare il principio di trasparenza dell’attività amministrativa. In tal caso, questo principio subisce un rafforzamento che implica la piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. Ciò significa che gli autori del software devono rendere noto – conoscibile – “il procedimento usato per l’elaborazione, il meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionali dei dati valutati come rilevanti”.

L’unico modo per raggiungere questo obiettivo è quello di fornire delle spiegazioni per iscritto, che traducano la “formula tecnica” nella “regola giuridica” sottostante. Così facendo, il software diventerà leggibile e sarà comprensibile a tutti gli interessati ed al giudice. Questa “conoscibilità in sé” produrrà due conseguenze. Innanzitutto, il procedimento amministrativo avverrà in maniera trasparente. In secondo luogo, consentirà al giudice di valutare la correttezza del procedimento informatico, come sottolineato sopra, e di sindacare la logicità e la ragionevolezza della decisione amministrativa adottata.

Conclusioni: il robot può sostituire il funzionario

È evidente che la pronuncia del Consiglio di Stato ha ribadito i principi base della pubblica amministrazione e li ha adeguati alla sua versione digitale: l’algoritmo è un atto amministrativo informatico ed in quanto tale per poter rispettare il principio di buon andamento e di economicità deve essere conoscibile e sindacabile. Questa conclusione permette di fornire una risposta al quesito originario: lo strumento a disposizione dell’interessato nei confronti di un algoritmo illecito – della sua applicazione – è l’impugnazione, sia dinanzi ad autorità amministrative che giurisdizionali.

Pertanto, un robot potrà sostituire un funzionario purché sia trasparente e permetta al giudice di sindacare il proprio ragionamento.

Redazione Diritto dell’informatica

 

 

 

 

 

 

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