web social network

C’è chi le definisce “bufale” e chi invece decide di affidarsi al più british “fake news”. Comunque le si voglia chiamare, le notizie false o non verificate da fonti autorevoli sono cresciute in maniera esponenziale grazie soprattutto alla massiccia diffusione della rete internet.

Ma cosa si cela e soprattutto, qual è la convenienza nel diffondere una notizia falsa nel web? Molto spesso dietro ai siti responsabili della diffusione di fake news si nascondono delle vere e proprie organizzazioni che lucrano grazie alle inserzioni pubblicitarie all’interno dei propri portali: in buona sostanza, quanti più accessi riceverà il sito, tanto più le aziende saranno invogliate ad inserire dei banner pubblicitari al suo interno.

I recenti casi di cronaca internazionale hanno infatti documentato come nella cittadina macedone di Veles, alcuni adolescenti avessero creato, in occasione delle elezioni presidenziali americane, oltre 140 siti di informazione specializzate nel diffondere quotidianamente notizie false riguardanti la candidata democratica Hillary Clinton. Stando a quanto riferito dai diretti interessati, ciascuna notizia, complice la diffusione dei social network, fruttava ai gestori all’incirca 3mila euro al mese.

È quindi evidente il notevole impatto prodotto dalle fake news a livello non solo economico, ma anche politico, in un’era in cui internet è divenuto il principale veicolo della diffusione di informazioni soprattutto tra i ceti meno istruiti della popolazione.

A tal fine, l’Unione Europea ha deciso lo scorso 26 settembre di dotarsi di un cosiddetto “codice di autoregolamentazione” sottoscritto dalle principali piattaforme digitali, con lo scopo di combattere il fenomeno della disinformazione online.

Il codice UE di autoregolamentazione per le piattaforme digitali

È stato lo stesso presidente del Parlamento UE Antonio Tajani ad auspicare l’introduzione di un sistema basato sul “controllo dei fatti” (cosiddetto “fact-checking”) idoneo salvaguardare l’autonomia di pensiero dei cittadini europei, in considerazione soprattutto della campagna elettorale che il prossimo 26 maggio lì chiamerà ad esprimersi sulla scelta dei rappresentanti da designare all’interno dell’Europarlamento.

La stessa commissaria per L’Economia e le società digitali Marija Gabriel a margine della conferenza svoltasi tra vari fact-checkers europei ha espresso la propria preoccupazione circa gli effetti negativi della disinformazione sull’integrità del sistema democratico e soprattutto sul crescere della sfiducia dei cittadini nei confronti dei media tradizionali, la cui credibilità è costantemente minata dal dilagare di notizie false.

In quest’ambito, risulta quindi fondamentale il ruolo ricoperto dai social network: è infatti innegabile come questi ultimi, rivestendo precise responsabilità in merito alla diffusione dei contenuti in rete, devono conseguente svolgere un ruolo “proattivo” e attuare delle opportune strategie per contenere l’espansione dei siti internet autori di fake news.

Il codice di autoregolamentazione presentato dalla Commissione Europea lo scorso 26 aprile,opera quindi sulla base di quattro “principi cardine”, tra cui la trasparenza riguardante l’origine e le modalità di diffusione delle notizie, le strategie volte a promuovere il pluralismo nell’informazione, la creazione di indici per valutare la credibilità delle notizie e la fornitura di cosiddette “soluzioni inclusive” attuate attraverso la sinergia tra autorità, social network e giornalisti.

Il tutto – prosegue la Gabriel – non potrà prescindere da vere e proprie iniziative patrocinate dalla stessa Commissione UE per favorire la cosiddetta “educazione ai media”: sviluppando il relativo senso critico dei cittadini si consente loro di riconoscere e di verificare autonomamente la veridicità di una notizia rinvenuta in rete.

A tal fine, i giornalisti e i fact-checkers ricopriranno quindi un ruolo di primaria importanza, purché questi svolgano i loro compiti in assoluta indipendenza da influenze di tipo politico e commerciale e siano adeguatamente supportati dalle istituzioni europee, chiamate a garantire il pieno accesso alle fonti da cui originano i dati.

Tra coloro che hanno apposto la propria firma sul codice di autoregolamentazione ci sono quasi tutti i big delle piattaforme online, come Facebook, Google e Mozilla: questi ultimi si sono impegnati ad effettuare un controllo sugli account falsi e ad eliminare i mezzi di sostentamento (provenienti dagli inserzionisti) nei confronti di quanti contribuiscono a diffondere notizie false sui social o nel web.

L’adesione dei siti di informazione al “Trust Project”

Nato nel 2014 con l’obiettivo di garantire “lo sviluppo di standard di trasparenza che aiutino a valutare la qualità e la credibilità del giornalismo”, il Trust Project, consorzio giornalistico sviluppato dall’Università californiana di Santa Clara e guidato dalla reporter Sally Lehrman, raccoglie al suo interno circa 120 network dell’informazione americani ed europei.

Lo scopo è quello di creare uno standard comune, creato sulla base delle interviste raccolte dai ricercatori tra i lettori, i quali, nella maggiorparte dei casi, rivendicavano il diritto a una maggiore affidabilità e trasparenza nelle notizie pubblicate.

Da queste indicazioni sono emerse una serie di parametri (chiamati appunto “trust indicators”) che sono stati inviati alle testate giornalistiche aderenti sotto forma di linee-guida, con la possibilità di essere ulteriormente sviluppate ed eventualmente applicate al caso concreto.

I Trust Indicators evidenziano il tipo di informazione (se si tratta cioè di notizie pubblicitarie, di cronaca o di opinioni), gli standard utilizzati dalla testata, i relativi finanziatori e le informazioni inerenti all’autore dell’articolo, in modo che essi siano sempre ben visibili dagli utenti e possano essere identificati anche dai gestori dei motori di ricerca, cosicché questi ultimi siano in grado di effettuare una scrematura delle notizie attendibili rispetto a quelle false.

I risvolti conseguenti all’adozione di questi indicatori sono attualmente ben visibili non solo nel grado di soddisfazione degli utenti (la cui responsabilizzazione nell’utilizzo delle fonti è apparsa notevolmente migliorata), ma anche nell’accresciuto grado di reputazione delle stesse testate giornalistiche, con riguardo soprattutto al livello di affidabilità e di attendibilità.

In Italia: dalla “Carta dei diritti in Internet” alla proposta di legge (mai discussa) sulle fake news

Nel 2015, la Camera dei Deputati approvò all’unanimità la cosiddetta “Carta dei diritti in internet”, sulla scorta della precedente “Dichiarazione di diritti in internet” elaborata dall’omonima Commissione parlamentare istituita dall’allora Presidente della Camera Laura Boldrini (anch’essa suo malgrado vittima di ripetute campagne d’odio e di fake news) e presieduta da Stefano Rodotà.

Lo scopo, secondo il preambolo, era quello di garantire il “riconoscimento di libertà, eguaglianza, dignità e diversità di ogni persona (..)” e per evitare “il prevalere di poteri pubblici e privati che possano portare ad una società della sorveglianza, del controllo e della selezione sociale”. Internet si configura infatti “come uno spazio sempre più importante per l’autorganizzazione delle persone e dei gruppi e come uno strumento essenziale per promuovere la partecipazione individuale e collettiva ai processi democratici e l’eguaglianza sostanziale”.

Principi sacrosanti che, unitamente a quelli espressi nei vari articoli della Carta (tra cui il “diritto alla conoscenza e all’educazione in rete” e quello dell’”autodeterminazione informativa”) dovrebbero costituire dei capisaldi affinché gli utenti siano garantiti sulla bontà ma soprattutto sull’autenticità delle informazioni reperite in rete, ma che, senza uno strumento legislativo apposito (che preveda pesanti sanzioni nei confronti di quanti diffondano notizie false o lesive della dignità di una persona in rete) sono destinati a rimanere inattuati.

E dire che le proposte non sono mancate, sebbene siano ben presto naufragate. Come il disegno di legge presentato nel febbraio 2017 dall’ex senatrice Adele Gambaro, che non intraprese mai il suo percorso di discussione, finendo in qualche cassetto della Commissione Affari Costituzionali e Giustizia.

È pur vero che trattasi di un fenomeno complesso, per il quale è necessaria una discussione approfondita, senza la quale qualsiasi proposta di legge finirebbe con il limitare il sacrosanto diritto alla libertà d’espressione e istituendo illegittime forme di censura del web. Ma un punto di inizio dovrà per forza esserci, prima (e non poi).

Dott. Ercole Dalmanzio

 

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