Con 318 voti favorevoli e 278 contrari, giovedì il Parlamento Europeo ha bloccato l’avvio dei negoziati con il Consiglio dell’Unione e la Commissione Europea sulla proposta di direttiva riguardante il diritto d’autore, rimandando di fatto la discussione alla prossima seduta plenaria di settembre.

Com’era prevedibile, gli stati d’animo registrati sono stati contrapposti: se, da un lato, le associazioni che tutelano i diritti nell’era digitale hanno espresso soddisfazione per il risultato raggiunto, dall’altro, gli editori non hanno tardato a definirla come “un’occasione mancata”.

Il diritto di autore antecedente alla proposta di riforma

Le precedenti leggi sul diritto d’autore dell’Unione Europea nascono con l’intento di armonizzazione le diverse normative sul copyright vigenti negli stati UE, costituite dalle direttive e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Un primo intervento legislativo si ebbe infatti con la direttiva 91/250/CEE del 14 maggio 1991, riguardante la “tutela giuridica dei programmi per elaboratore”. Successivamente, la direttiva 93/98/EEC del 1993 fissò in settant’anni la durata del diritto d’autore calcolata a partire dalla morte del proprietario intellettuale dell’opera.

Da ultimo, la direttiva 2001/29/EC “sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione” ebbe un percorso piuttosto travagliato, come dimostrano le sei sentenze che ne hanno disposto il non recepimento.

Da qui l’esigenza di predisporre una nuova normativa, improntata non solo alla tutela della proprietà intellettuale nell’era digitale, ma che sia anche in grado di regolamentare l’attività delle piattaforme web.

La riforma del diritto d’autore nel contenuto della direttiva

Composta da 24 articoli, la proposta sottoposta all’esame del Parlamento Europeo si propone di riformare la disciplina del diritto d’autore attraverso un atto legislativo la cui adozione, sebbene sia vincolante per gli Stati membri, lascia loro la piena libertà di attuarla conformemente al proprio diritto interno.

Il contenuto abbraccia i molteplici settori che coinvolgono i diritti degli autori di opere intellettuali: dalla musica, all’arte e alla letteratura, fino a comprendere i prodotti informatici e, in generale, le opere digitali.

La proposta nasce da una situazione di effettivo vuoto legislativo creatasi attorno alla regolamentazione delle piattaforme che ospitano contenuti caricati dagli utenti, attualmente esonerate dal pagamento di una licenza sulle opere intellettuali di cui entrano in possesso.

Non solo. Si è sostenuto che tale modello di riforma andrebbe a tutelare maggiormente l’industria dei media online che attualmente difetta di un modello sostenibile, a fronte della grande mole di utenti che quotidianamente usufruiscono dei contenuti pubblicati dalle piattaforme di informazione giornalistica.

Le maggiori criticità – oltre alle numerose polemiche che tale proposta ha suscitato – si sono infatti manifestate relativamente agli articoli 11 e 13, riguardanti, rispettivamente, il compenso spettante agli editori per lo sfruttamento di un contenuto digitale protetto da copyright (definita link tax) e la regolamentazione della diffusione online di opere senza il consenso dell’autore attraverso la predisposizione di filtri automatici che ne impediscano la pubblicazione.

Con riferimento al primo dei due articoli sopra citati, da alcuni impropriamente ribattezzata “tassa sui link” (benché non si tratti di un’imposta), la proposta ha previsto una forma di retribuzione che andrebbe versata da parte di coloro che utilizzano un’opera altrui a fini commerciali.

In pratica, chiunque intenda indicizzare un link o uno snippet (ovvero l’anteprima del contenuto pubblicato, ad esempio, su un social network) dovrà chiedere la previa autorizzazione alla testata sulla quale il contenuto è stato pubblicato e dovrà altresì corrispondere una forma di retribuzione per tale “sfruttamento”.

Sul versante opposto, l’art. 13 mira invece ad arginare un fenomeno in costante ascesa e riguardante il caricamento di opere di soggetti terzi su piattaforme come YouTube: la prevista adozione di filtri automatici impedirebbe quindi la pubblicazione indiscriminata di contenuti protetti, con lo scopo di monetizzare le visualizzazioni attraverso gli introiti pubblicitari da queste generate.

Le ragioni di due fronti contrapposti

Proprio tale ultimo aspetto ha suscitato numerose ed accese proteste, la più clamorosa da parte di Wikipedia, la quale in numerosi Paesi – tra cui l’Italia – ha temporaneamente oscurato le proprie pagine esprimendo così il proprio dissenso nei confronti di una direttiva definita “liberticida” e lesiva della libertà di espressione sul web.

A sostegno delle proprie ragioni, il celebre portale indica infatti l’impossibilità di effettuare un’analisi preventiva di tutti i contenuti caricati dagli utenti all’interno dell’Unione, soprattutto a causa della mancanza di adeguati mezzi economici (l’attività dell’enciclopedia on line è sostenuta grazie alle donazioni volontarie dei sostenitori del progetto – ndr) – che si renderebbero necessari per svolgere un’analisi capillare delle voci caricate sulla piattaforma.

Viceversa, la proposta contenuta nell’articolo 11 è stata accolta con favore da parte degli editori, i quali lamentano il continuo deficit registrato nel settore dell’informazione online. L’introduzione di un cosiddetto “equo compenso” costituirebbe infatti un valido strumento, che potrebbe essere in grado di arginare le perdite, in un’ottica di maggiore sostenibilità dei rispettivi modelli di business.

La questione è di fatto annosa, poiché il mondo dell’editoria ha da sempre contestato a Google l’utilizzo indiscriminato dei contenuti pubblicati dalle testate online allo scopo di indicizzarli sui propri motori di ricerca; dal canto suo, la società statunitense ha da sempre rivendicato il proprio sostegno all’editoria attraverso l’incentivo alla digitalizzazione dell’informazione.

Alla luce di ciò, la contrarietà espressa nei confronti dell’articolo 11 ha visto schierarsi sotto la stessa bandiera i colossi dell’economia digitale (Facebook e Google su tutti) e le associazioni a tutela della libertà su internet, che hanno stigmatizzato tali meccanismi di compensazione, poiché ritenuti fortemente penalizzanti soprattutto per le piccole società di informazione, che rischierebbero di rimanere schiacciate dalle possibili richieste di indennizzo avanzate dagli editori.

La questione non pare quindi di semplice soluzione: è infatti incontestabile che, attraverso l’analisi dei comportamenti degli utenti nei confronti dell’informazione online, emerge come questi ultimi beneficino in larga parte delle sole anteprime dei contenuti, catalizzando perciò il traffico dei dati quasi esclusivamente sulle piattaforme social. Ciò induce inevitabilmente gli inserzionisti pubblicitari ad investire unicamente su questi canali a discapito delle testate online, che vedono drasticamente ridotte la maggior parte delle fonti da cui trarre il proprio sostentamento.

Tornando sul versante dell’articolo 13, c’è da evidenziare anche che le grandi major discografiche hanno accolto con favore la bozza di provvedimento, ritendendolo uno strumento utile a contrastare il fenomeno della pirateria musicale che molto spesso viene posto in essere sulle principali piattaforme di condivisione, allorché gli utenti pubblicano dei contenuti senza disporre dei relativi permessi.

In quest’ambito emerge, infatti, anche la grossa problematica del cosiddetto “value gap”, ovvero quel particolare vuoto legislativo che permette alle piattaforme di condivisione online (YouTube su tutti) di versare un contributo alle case discografiche, che appare irrisorio a fronte degli introiti realmente percepiti tramite le visualizzazioni.

Da un’altra prospettiva, notevoli perplessità sono state espresse da circa 70 esperti di internet che hanno sostenuto che la direttiva potrebbe avere effetti dirompenti sulla struttura stessa della rete, trasformandola da sistema aperto “a strumento di sorveglianza degli utenti”: contenuti parodistici o opere che traggono libera ispirazione dal cinema o dalla musica rischierebbero, infatti, con il sistema proposto, di divenire potenzialmente illegali.

Cosa aspettarsi dalla prossima seduta plenaria del Parlamento

Il voto negativo e la conseguente spaccatura registratasi in seno al Parlamento UE nella giornata di ieri ha notevolmente rallentato il processo di approvazione della direttiva sul copyright, che sotto i diversi ambiti e pur con punti di vista differenti rimane assolutamente necessaria al fine di colmare il vuoto legislativo su una problematica che coinvolge utenti, aziende e in generale chiunque detenga la proprietà intellettuale di un qualsiasi contenuto presente in rete.

L’interruzione dei negoziati intrapresi con il Consiglio e la Commissione ha di fatto impedito che l’adozione del testo definitivo, previsto inizialmente per la primavera del 2019, fosse portato a termine con il successivo reperimento da parte degli Stati membri entro il 2021.

I tempi quindi si allungano e la speranza, a questo punto, è che tale periodo sia utilizzato per trovare soluzioni che permettano di garantire al meglio tutti i soggetti coinvolti.

Dott. Ercole Dalmanzio

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